venerdì 10 febbraio 2012

Foibe: è il giorno giusto?

La storia recente si studia poco e male, a scuola. E' per questo che riporto qui questo articolo: spero che nelle scuole lo leggano e lo facciano circolare.
Precisi calcoli dietro le date delle “Giornate della Memoria”
di Giovanni De Luna, il Venerdì,  21 gennaio 2011
Per istituire la Giornata della memoria dedicata alle vittime della Shoah il Parlamento fu chiamato a scegliere tra due date: quella del 16 ottobre e quella - che fu poi effettivamente indicata – del 27 gennaio. La prima si riferiva alla deportazione di mille ebrei dal ghetto di Roma avvenuta il 16 ottobre 1943; la seconda all'apertura dei cancelli di Auschwitz ad opera dell’Armata Rossa. Erano due diverse opzioni storiografiche e culturali: con il 16 ottobre si sarebbe sottolineata la complicità del fascismo di Salò nello sterminio degli ebrei (indicando una data nazionale, come hanno fatto i francesi scegliendo il 16 luglio, in ricordo della razzia dei 13 mila ebrei rinchiusi nel Velo d'Hiver a Parigi); con il 27 gennaio si privilegiava una data più neutra, sulla linea seguita da altri Paesi come la Svezia, la Gran Bretagna, ecc..
Il balletto di date si è poi ripetuto anche per la «giornata della memoria delle vittime del terrorismo», quando a fronteggiarsi furono il 12 dicembre (la strage di Piazza Fontana) e il 9 maggio (l'assassinio di Aldo Moro). La prima avrebbe richiamato, ovviamente la strategia della tensione, la cappa di oscurità e di misteri che ancora grava sugli episodi dello stragismo che videro pesantemente coinvolti neofascisti e apparati dei servizi segreti. La seconda (quella poi indicata) poneva l'accento soprattutto sul terrorismo di matrice comunista, facendo precipitare nell'icona carica di sofferenza di Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse l'intera dimensione politica degli anni di piombo.
Anche la scelta del l0 febbraio come «giornata della memoria.» delle foibe fu al centro di un vivace dibattito: quella data non c'entrava niente con la tragedia vissuta dagli italiani nei territori della ex Jugoslavia (gli infoibamenti dei nostri connazionali si svolsero in due fasi, la prima immediatamente successiva all'8 settembre 1943, la seconda nel tragico maggio 1945, quando i titini occuparono Trieste e Gorizia), ma si riferiva invece esplicitamente al giorno della firma del Trattato di pace di Parigi (10 febbraio 1947), ricordando quindi, non tanto le foibe, quanto «l'infame diktat di Parigi», la «cinica e criminosa volontà dei vincitori»: i temi insomma più cari alla pubblicistica neofascista dell'immediato dopoguerra.
Se si riattraversano i dibattiti parlamentari che hanno preceduto le varie «giornate della memoria», a emergere è una concezione della storia come arma da usare per legittimare una parte politica contro l'altra; un passato novecentesco ancora troppo carico di lutti e ferite, un passato «che non riesce a passare»: in parte per i suoi eccessi, in parte per una certa inadeguatezza delle nostre istituzioni. Venti anni fa, la classe politica uscita dal crollo della Prima Repubblica venne chiamata a una complessiva opera di «rifondazione». Si trattava, tra l'altro, di rinnovare un intero apparato simbolico, quell'insieme di pratiche di natura rituale sul quale un sistema politico fonda la propria legittimazione. Nella crisi del biennio 1992-1994, oltre ai partiti storici era infatti andato perso anche il «patto costituzionale» ereditato dall'antifascismo e dalla Resistenza che, almeno per i trent'anni che vanno dal 1960 al 1990, aveva improntato la nostra religione civile. Per ricominciare, occorreva riempire quel vuoto, essere in grado di proporre una lettura del nostro passato «nazionale» normativamente forte e in grado di inculcare una nuova tavola dei valori della Repubblica.
Venti anni dopo prendiamo atto di un vero fallimento. Il sentirsi italiani, il riconoscersi in un valore che non sia solo l'essere tutti figli dello stesso benessere e che si fondi su un comune nucleo civico, è oggi un sentimento che non suscita passione, mentre altre scelte si affermano in un universo sempre più affollato da derive familistiche, da egoismi aggressivi, da pulsioni che oscillano tra il rancore e la passività. La memoria pubblica è un «patto» in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciare cadere degli eventi del nostro passato.
Su questi eventi si costruisce l'albero genealogico di una nazione. Sono i pilastri su cui fondare i programmi di studio da proporre nelle scuole, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili, le priorità da proporre nella grande arena dell'uso pubblico della storia, le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva. I fondamenti di quel «patto» cambiano a seconda delle varie «fasi» che scandiscono il processo storico di una nazione. Ogni volta cambiano i suoi contraenti e i suoi contenuti.
La fragilità della nostra memoria pubblica deriva oggi essenzialmente dalla precarietà dei suoi contenuti e dall'inadeguatezza dei suoi contraenti. I partiti che avevano costruito e monopolizzato il vecchio «patto di memoria» sono tutti scomparsi, sostituiti da partiti che con il passato hanno un rapporto contraddittorio, volatile, spesso inesistente.
Sul piano istituzionale, è rimasta solo la Presidenza della Repubblica a costruire memoria, in un cambiamento di ruolo tanto drastico, quanto significativo, cominciato già con Pertini e reso clamorosamente evidente prima da Ciampi, poi da Napolitano. I loro interventi, tuttavia, sono come le chiazze d'olio in un mare in tempesta: rassicurano e placano, mentre tutt'intorno la burrasca imperversa e le onde del risentimento e della rissa sul passato continuano ad accavallarsi impetuose. Tutte quelle giornate della memoria testimoniano l'affanno delle nostre istituzioni all'inseguimento di una legittimazione che diventa più precaria. Alla loro quantità non si è accompagnata una pari efficacia. Ed anzi, anche su quel terreno nevralgico per la sua stessa credibilità, lo Stato ha finito per confessare la sua impotenza e la sua inadeguatezza.
A tenere insieme il complesso di quelle leggi è stato infatti il tentativo di proporre come contenuto del patto fondativo della nostra memoria il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle «vittime». Ma Shoah a parte, che resta un terribile unicum nella storia dell'umanità, nella tragedia italiana della mafia e degli anni di piombo, come delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, emergono solo vittime: sempre e solo vittime. Ma quali sono le caratteristiche di una memoria che scaturisce dalla «centralità delle vittime»? Una fortissima carica rivendicativa, un'inesausta richiesta di risarcimento e di riparazione. E poi ancora la soffocante presenza delle emozioni: odio, vendetta, perdono, pietà, compassione.
Infine, mastodontica, la competizione tra le varie vittime, quasi che ognuna di esse, per poter vedere riconosciuto il proprio dolore, debba sopravanzare quello delle altre. Una competizione resa assordante dalla risonanza mediatica attribuita a quel dolore. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate; e più si grida forte più si sfondano le barriere dell'audience e dell'ascolto. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue regole, nel controllarne la domanda e l'offerta. Ma al mercato si può chiedere tutto, non di costruire una qualsiasi forma di bene comune e tantomeno una religione civile.
GIOVANNI DE LUNA http://www.repubblica.it/

2 commenti:

Anonimo ha detto...

A proposito di "arma da usare per legittimare una parte politica contro l'altra":
La Lega ha detto no ai treni della memoria (la giunta regionale piemontese ha tagliato i fondi con la scusa della crisi, anche se in altre regioni i soldi si sono trovati); i 200mila euro che fino all'anno scorso venivano destinati con regolarità a Terra del Fuoco, l'associazione (un fondatore vicino all'area Sel) organizzatrice del viaggio ad Auschwitz per ricordare la Shoah, sono stati cancellati con un colpo di spugna da Michele Coppola (Pdl, giovane assessore alla Cultura e alle Politiche giovanili, già sfidante di Piero Fassino alla carica di sindaco di Torino), il quale ha destinato 50mila euro a finalità pressoché identiche, finanziando le attività del Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio Regionale (il cui presidente, del Pd, ha affermato che c'è chi scambia la memoria per immagine ma, forse... non sarà proprio perché ha meno visibilità che ha posto il suo "aut aut" sui finanziamenti a Terra del fuoco?).
la notizia è presa da l'Espresso, con mie considerazioni finali!

Giuliano ha detto...

quello che mi fa più orrore è l'usare le foibe e i gulag per "contrastare" i lager nazisti: con ragionamenti (più o meno cammuffati) del tipo "noi avevamo quelli ma voi avete questi, ciapa su e sta zitto". Il livello è infimo, ma ha preso piede, come si vede anche dall'esempio che porti.
Sta di fatto che se si fanno 365 "giornate della memoria" in un anno, e 366 nei bisestili, è come non farne nessuna: ed è questo che vogliono.
La cosa più triste, vedere anche quelli del PD che si accodano...Ma se davvero la data del 10 febbraio non c'entra niente con le foibe, perché fare la giornata della memoria proprio in questa data? Sarebbe interessante andare a vedere chi ha votato a favore.