domenica 25 dicembre 2011

Giorgio Bocca

Uno dei primi giornalisti che ho imparato a riconoscere e che ho sempre seguito è stato Giorgio Bocca. Il che significa che lo leggo da una vita, cioè da quando mio fratello comperava "Il Giorno" (fine anni '60) e anch'io gli davo un'occhiata. Giorgio Bocca e Walter Tobagi sono stati i primi giornalisti che mi hanno fatto capire qualcosa, su come funzionava il mondo; Tobagi me lo hanno tolto subito (gli ha sparato un figlio di papà che giocava alla rivoluzione, negli anni '70), Bocca invece è rimasto con noi fino a ieri, meno di un mese fa scriveva ancora, e lo leggevamo in tanti: lucidissimo, anche a 91 anni. Non sempre ero d'accordo, non sempre mi convinceva, era diversissimo da me, ogni tanto mi ci arrabbiavo, ma dopo aver letto i suoi articoli avevo sempre qualche informazione in più.
Metto qui qualche estratto dai suoi articoli, preso a caso: ne ho conservati molti, sono tutti da rileggere, spesso sono sorprendenti, altre volte sorprende il fatto che Bocca sia stato criticato: perché raccontava quello che era sotto gli occhi di tutti.

Dietro a Letizia Moratti la città dei danée
MILANO, LA CITTÀ FEROCE
di Giorgio Bocca, Repubblica 13 maggio 2011
La "moderata" Letizia Moratti che affonda i denti su Pisapia affilati dalla lama di una falsa accusa mi ha fatto riflettere sulla Milano della mia vita, i suoi cambiamenti, il suo diventarmi straniera. Chi arriva a Milano da Torino, insomma da Ovest, vede alla sua sinistra due torri color cioccolato, una dritta al cielo e una storta come quella di Pisa. Perché?
L'unica ragione di chi le ha costruite è che la gente si chieda il perché, dato che anche in quella pendente i piani abitativi sono orizzontali. Poi chi entra in città per uno stradone a curve larghe va per il paese delle meraviglie balorde: edifici colossali a triangolo, a rombo, tanto per stupire, e ci si chiede perché nell'era moderna migliaia di persone vi si debbano rinchiudere nelle ore di lavoro.
Per cominciare Milano è questa, una città come le altre città moderne dove fra le case e chi ci abita e lavora non c'è più un rapporto logico, naturale, di bisogni e di utilità, ma una pretesa ridicola di apparire creativi, originali, ultramoderni. Insomma il rovesciamento della logica millenaria per cui una casa serviva per abitarci e per lavorarci.
Procedendo verso il centro si presenta un'altra domanda senza risposta: perché gli uomini moderni metropolitani devono stare tutti insaccati in una megalopoli e non nell'ampiezza naturale del territorio, tanto più adesso che con i mezzi di telecomunicazione ognuno potrebbe lavorare a casa sua? Questa è una domanda che un provinciale come me, nato e vissuto fino ai vent'anni in una città alpina fra due fiumi dove non c'era una giornata di nebbia, dove, lo diceva Dino Buzzati, ogni mattina dalla mia finestra apparivano le montagne bianche di neve, si pone.
Ma perché allora noi milanesi dobbiamo vivere qua, lungo il fetido Lambro e sotto la sua fetida politica? Perché siamo qui per partecipare a un "tavolo", per fare la trattativa fra le varie corporazioni produttive e burocratiche. Perché è stata creata quest'immagine del tavolo? Cosa è, una metafora?
No, in tutte le direzioni aziendali e manifatturiere, amministrative e politiche c'è veramente un tavolo nel salone delle riunioni, tavoli ovali lunghi decine di metri con tutte le sedie attorno. È chiaro che queste riunioni hanno un puro significato simbolico, sono fatte per far credere che la scelta era corale, democratica, mentre tutti sanno che a decidere sono solo i pochi che contano veramente. Il culto del tavolo di cui si parla di continuo significa che la Milano di oggi è soprattutto una società urbana condiscendente e concorde. La dirigono, come in un'aristocrazia, le famiglie ricche, i gruppi finanziari potenti non sono legati solo da parentele e da interessi economici, ma anche da legami sportivi, i Moratti dall'Inter e i Berlusconi dal Milan, legami che non sono soltanto affettivi ma anche politici.
I"dané" nella Milano di oggi contano come in quella di ieri, di sempre, la Moratti sindaco spende per la campagna elettorale quanto tutti gli altri candidati messi insieme, e il Moratti presidente dell'Inter ha speso in questi anni per la squadra milioni di euro, che ai gonzi sembrano spese folli da ricco ambizioso in cerca di popolarità, e invece sono strumenti di consenso politico più convenienti di qualsiasi campagna pubblicitaria.
Ma che cos'è in questa vigilia elettorale questa Milano? Una metropoli feroce del capitalismo avanzato in cui sotto varie forme comandano i ricchi che hanno il favore e la fedeltà della maggioranza benestante o soddisfatta del suo stato, diciamo il sessanta percento degli abitanti. Gli altri quaranta, che in teoria dovrebbero stare all'opposizione, sono rassegnati a essere cittadini di serie B, per non parlare dei poveri che sono come la pula del grano che vola a ogni soffio di vento; un po' ridicolo che questa società autoritaria dei pochi ricchi e potenti abbia la fedeltà sicura dei benestanti e dei comunque soddisfatti. Ma così è e i signori di Milano non hanno il carisma dei principi e dei sovrani ma sono sopra ogni critica, possono governare la città senza essere criticati da un elettorato che rappresenta la nuova classe unica della borghesia allargata che bada ai suoi interessi, provvede alle opere indispensabili. E che i poveracci vadano a togliere il disturbo dove vogliono, possibilmente isolati.
Milano è l'immagine perfetta di una società che si crede democratica perché rispettosa di alcuni princìpi, sia chiaro importantissimi, ma non al punto di poter condizionare o sostituire il potere del denaro. Il governo dei ricchi e dei potenti nella società democratica occidentale è, sia ben chiaro, una conquista. Ma il decadimento civile del paese, a cominciare da quello della lingua ridotta a una serie di luoghi comuni, di etichette mandate a memoria, questo è un prezzo durissimo che stiamo pagando alla generale mancanza di indignazione, di protesta a ogni violazione pretesa dal dominio economico e pubblicitario.
Salvo poche eccezioni non c'è più un politico, un amministratore pubblico, un operatore economico che sappia parlare una lingua, non diciamo corretta, ma decente. Si preferiscono sfilze di luoghi comuni appiccicati alla memoria. Nei livelli inferiori della cronaca e in una gran parte delle cronache sportive si parla come selvaggi da poco arrivati al mondo civile, immagini stereotipe, aggettivi esagerati, congiuntivi omessi. Siamo arrivati al rimpianto dei dialetti come unica fonte di lingua creativa, del loro vigore e chiarezza descrittiva, si preferisce l'obbedienza alle pressioni e ai controlli degli interessi economici. Sarà effetto della vecchiaia, della memoria lunga, ma mi sorprendo spesso a pensare e a parlare in piemontese, a chiamare le cose con un nome, con il loro nome nativo.
Chi ha paura del cardinal Bagnasco
di Giorgio Bocca, L’espresso 31 maggio 2007
Che ne pensa del Family day ? Un certo fastidio per il nome in inglese, da provinciali dell'impero anglosassone, da mercato globale per vendere di più che con "il giorno della famiglia". Poi lo strumentalismo politico cui non poteva mancare Silvio Berlusconi con il suo teorema imbecille: «Il Family day è di destra, solo i dementi sono di sinistra». E poi il trionfalismo, la retorica sulla famiglia bene supremo della società. Non sempre per fortuna. La famiglia per la continuazione della specie, per la formazione e l'esistenza della nazione, d'accordo, ma anche la famiglia come freno della perenne rivoluzione sociale, come ostacolo alla conoscenza.
Chi ha raccolto le sfide della vita sa che nei momenti decisivi ha dovuto disattendere o disobbedire ai legami della famiglia. La sera che me ne andai da casa per raggiungere la guerra partigiana dissi ai miei: «Sappiate che se vi arrestano o vi perseguitano io non scenderò dalla montagna per costituirmi».
Le famiglie hanno giocato un ruolo ambiguo durante il terrorismo più vicino ai legami del sangue che alla legalità. Le lodi alla famiglia cattolica, in parte condivisibili, sono parse fastidiose e acritiche nella loro ignoranza delle famiglie non cattoliche e nel silenzio sui freni e sui limiti che le famiglie hanno posto agli individui ardimentosi e generosi, rosi, anche se cattolici o santi che allargavano le umane conoscenze.
Di fronte alla manifestazione di piazza, e alle cervellotiche definizioni politiche su chi è un familista di destra o di sinistra, ci è parso di cogliere nella società italiana una diffusa diffidenza verso la democrazia intesa come convivenza e tolleranza fra i diversi. Per i cattolici ogni affermazione di laicismo è vista come una ostilità al mondo cattolico. Ogni riconoscimento di un diritto civile agli omosessuali come l'avvento del regno di Satana e, all'opposto, ogni difesa dei cattolici in materia religiosa come un ritorno alla caccia alle streghe o come una crociata sanfedista.
Chi vedeva nel cardinale Camillo Ruini un asfissiante difensore di privilegi clericali aveva le sue buone ragioni, ma quelli che promettono morte al cardinal Bagnasco perché fa le sue prediche sono afflitti da mania di persecuzione.
Che l'Italia sia un paese cattolico nei suoi meriti e nei suoi difetti è un fatto accertato, che la televisione pubblica sia al servizio del Vaticano, dei papi e delle loro pubbliche cerimonie è altrettanto evidente, ma non è una ragione per dire che la Repubblica italiana è una teocrazia in cui i laici sono schiavi dei preti.
In tutta la mia avventurosa vita non ho mai avuto ragione di temere un divieto o un rimprovero ecclesiastico. Le ferree regole del capitale, gli infiniti delitti che vengono permessi e perdonati in nome dei soldi, sono i veri privilegi autoritari del nostro tempo. I preti di adesso si fan vedere nelle nostre case solo per la benedizione pasquale e quando ci servono per confessioni e olio santo.
Si ha l'impressione che queste paure esagerate, queste contrapposizioni spesso fantastiche nascano dal sentimento generale che non si può andare avanti così, senza principi e senza regole, affidati soltanto alla moltiplicazione dei consumi e al dilagare della corruzione.
Non si può andare avanti con il rovesciamento dei valori che il capitalismo selvaggio sta operando. Da capo del governo Berlusconi dichiarava che l'evasione fiscale era un diritto dei cittadini, un modo di resistere allo Stato esoso. Finanziere di livello mondiale, il signor Briatore padrone del Billionaire ricorda con rimpianto i giorni in cui fu arrestato per gioco d'azzardo come inizio della sua fortuna. E allora i casi sono due: o un ritorno a un minimo di ordine o un nuovo cataclisma sociale.

Non c'è una sola falce e martello
Giorgio Bocca su la Repubblica (2005)
La prima falce e martello che vidi fu nel gennaio del ´43 su un marciapiedi di corso Dante a Cuneo, appena imbiancato dalla neve. Una piccola falce e martello nera nel candore della neve fatta da un comunista, come dire una specie allora rarissima, che ne aveva lo stampo in una scarpa; tante falce e martello nere come piccoli scorpioni pungenti, per una ventina di metri. Da lasciarti senza fiato all´idea che anche in una provincia dell´Italia fascista c´era uno con quello stampo in una scarpa, forse un compagno di Germanetto il comunista di Cuneo fuggito in Russia.
E lo stupore, lo scompiglio fra i fascisti delle Federazioni nel palazzo Littorio, la corsa a cancellarle e il pensiero, chi sarà, dove sarà l´uomo con il marchio, come se le distanze e i silenzi del regime si fossero squarciati e fosse apparsa l´immensa, misteriosa, minacciosa Russia di Stalin. Poi nella guerra partigiana le falci e martello sulle bandiere dei garibaldini, sulla carta intestata delle loro brigate e poi nella Torino della liberazione e della ricostruzione le falci e martello della Camera del Lavoro, delle sedi comuniste, dei cortei comunisti che ci erano diventati familiari, che facevano parte definitiva, si pensava, del paesaggio politico italiano. Quel simbolo per noi italiani non era e non è evocativo del terrore staliniano, come è nei Paesi che furono schiacciati dal tallone sovietico, era il simbolo di una lotta di classe che il fascismo aveva nascosta ma non cancellata, di lotte che avevano segnato le nostre campagne e le nostre città. Faceva parte della faticosa costruzione di un Paese unito. Un simbolo graficamente bellissimo, il simbolo delle fabbriche e delle mietiture proletarie, un simbolo tragicamente ambiguo, per gli uni promessa di rivincita, per gli altri, nella Russia della dittatura, di dolore e di pena.
C´era fra i garibaldini della Val Varaita un operaio torinese che era stato guardia del corpo di Gramsci all´Ordine nuovo. Si parlava del fascismo, della repressione, dei comunisti che si erano rifugiati nell´Unione Sovietica e il suo ricordo dominante era la sera in cui era arrivato per la prima volta sulla Piazza Rossa e in alto aveva visto la grande falce e martello illuminata, ed era caduto in ginocchio, gli occhi pieni di lacrime, sotto quel simbolo di liberazione della "schiava umanità". La richiesta da parte di deputati lettoni o polacchi di equiparare la falce e martello alla svastica nazista non è accettabile storicamente. La falce e martello della rivolta contadina e sociale italiana non ha nulla a che vedere con la falce e martello dell´espansionismo sovietico, e anche dentro le storie di popoli come il polacco o il lettone il rigorismo è sconsigliabile. Sia in Polonia che negli Stati baltici la collaborazione popolare alla persecuzione degli ebrei fu spontanea, popolare durante l´occupazione nazista. La storia è diversa da Paese a Paese; i partigiani baltici, i comunisti baltici erano degli stalinisti che appoggiavano le misure annessioniste dell´Urss, la loro falce e martello non era simbolo di autonomia e di libertà, ma di collaborazionismo e di asservimento.
La falce e martello del socialismo italiano è cosa ben diversa e l´Italia democratica non può rinunciare alla sua memoria e alla tradizione. Dopo la liberazione dell´Italia nel 1945 il blocco agrario tra latifondisti e alta borghesia era ancora dominante. L´autarchia, l´industria di Stato del fascismo avevano tenuto il Meridione nel suo immobilismo. Il grande latifondo esisteva ancora, basta pensare ai Baracco e ai Berlingieri che possedevano nella campagna di Catanzaro trentamila ettari. La paga giornaliera di un bracciante era di cinquanta lire, paga da fame, le condizioni di vita identiche a quelle scoperte dai piemontesi nei giorni dell´annessione, il fascismo delle conquiste coloniali e della guerra era passato nelle campagne del sud senza cambiarne la miseria. Il sud era ancora quello del feudo: villaggi e città arroccati sulle montagne da cui ogni mattino all´alba a dorso di mulo i contadini partivano per raggiungere i campi delle colture estensive. Il quarantasei per cento del voto contadino alla Repubblica nel ´46 è un evento quasi miracoloso e lo accompagnano le bandiere rosse con la falce e martello che nel socialismo italiano significano l´unione del movimento contadino con quello operaio, la nascita della democrazia italiana. … Teniamocelo questo simbolo - in questo senso - fin che sarà possibile.

(le immagini vengono da vecchi numeri dell'Espresso o di Repubblica, non ricordo più: sono molto belle e spero che non ci siano problemi nel pubblicarle qui, si tratta solo di un gesto di affetto e di riconoscenza da parte mia. Purtroppo, non ho foto mie di Giorgio Bocca: e in effetti, dato che non lo conoscevo di persona, non sarei mai e poi mai andato a rompergli le scatole, né a lui né a nessun altro, del resto...)

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