lunedì 16 maggio 2011

Fascismo e dialetto

I movimenti autonomisti della Catalogna e dei Paesi Baschi nascono e prendono forza, nel ‘900, dal divieto franchista di parlare basco e catalano. La dittatura fascista di Francisco Franco, durata quasi cinquant’anni, prevedeva pene severe nel caso in cui baschi e catalani fossero stati sorpresi a parlare nel loro idioma materno. Le dittature, e il nazionalismo, hanno infatti questa caratteristica: vogliono metterci tutti in uniforme, ma proprio tutti (e qui vale la pena di ricordare il significato primario della parola “uniforme”: uniforme perché ci si veste tutti uguali, in maniera uniforme, e guai a chi sgarra, soldati e servitori). Negli anni '70, poco prima della morte di Francisco Franco, queste disposizioni vennero ammorbidite; ma è solo dopo la caduta totale del franchismo che vennero aboliti tutti i divieti riguardo le autonomie e le lingue locali. Da noi, per nostra fortuna, la dittatura fascista era caduta già da molto tempo.
In questi giorni da noi si è anche discusso molto su una certa ritrosia alle celebrazioni per l’Unità d’Italia in Alto Adige; ho letto che addirittura gruppetti di militanti di Forza Nuova volevano “marciare su Bolzano” per rivendicarne l’italianità; non so se poi l’abbiano fatto per davvero ma spero di no. Non mi piacciono i localismi e i nazionalismi, ma va detto che non hanno tutti i torti a Bolzano a protestare contro le feste per l’Unità d’Italia, perché da loro il fascismo cambiò perfino i nomi a luoghi e persone: oggi i fascisti sono di nuovo al governo e loro dovrebbero esserne contenti?

Il fascismo proibì i dialetti, anche se non a livello ufficiale; e vietò severamente alle minoranze di cittadini italiane di lingua diversa di esprimersi nella loro lingua materna. Il divieto (non scritto ma ben presente) valeva anche per la letteratura; alcuni dei nostri scrittori più importanti, vecchi e giovani, erano dialettali. Per esempio, un nostro grande poeta che scriveva in friulano ebbe grossi problemi ad essere recensito durante il fascismo: era Pierpaolo Pasolini, all’epoca giovanissimo (Pasolini era del 1922).
Qui da noi, in Lombardia, molti leghisti si dicono anche fascisti, ed è un altro aspetto grottesco e ridicolo dei nostri tristi tempi, tempi in cui l’ignoranza è molto diffusa e coltivata: in Lombardia non è mai successo niente di paragonabile a quello che è successo nei Paesi Baschi, o in altri Paesi dove la lingua locale fu veramente repressa. Molti leghisti si atteggiano a vittime, ma non si sa bene di cosa: in Lombardia non esistono minoranze linguistiche perseguitate. Se vanno in Irlanda (da dove hanno copiato il verde) gli autonomisti li prenderebbero a calci in culo, lì sono quasi tutti anarchici o di sinistra – ma guai a dirglielo, l’ignoranza è una brutta bestia.

Un altro poeta dialettale (un grandissimo poeta) che ebbe difficoltà durante il fascismo fu l’avvocato milanese Delio Tessa, al quale ho dedicato questo blog. Delio Tessa morì nel 1939, quindi in tempo per conoscere Mussolini e i suoi fascisti. A loro ha dedicato una poesia, forse non delle sue migliori, in cui parte da un simpatico truffatore degli anni ’30, che si spacciava per capo di stato pur non essendolo e che fu ricevuto anche da Mussolini, dicendosi contento della sua caduta, e che sperava che la stessa sorte capitasse anche a qualche altro cialtrone. Su “Ripp Witt Elk, prinzep Tavana” tornerò più avanti, per intanto copio e incollo qui sotto la descrizione di Benito Mussolini fatta da Delio Tessa.
... mi vedéndet tramontà
- oh tramonto degli Dei! –
per qui coo de ravanei
ch'inn de sponda al capp de cà,
per stí stòmegh de balena
che ne ròsega a ruína,
pei lacchè del Mussolina,
mi per tutt sti dobbia s'cenna
che sbuellen, van in broeuda
quand el pissa e quand el squitta,
per sti can taccaa alla vitta,
che in virtù de quella roeuda
che la gira intant che scrivi
van in su per tornà giò,
mi Tavanna Rai al tò
tramont, guarda, speri e vivi:
vivi e preghi d'avegh tanta
vitta ammò de tirà là
fina al dì che vegnarà
l'ora granda, l'ora santa
e per ti Eja e per lor
Eja sbragi, o test de bigol,
perdi i staff, voo su de rigol,
cavalier, commendator;
alalà, grand'ufficiaj!
Al patron, ai noster capp
batti i man, i pee, i ciapp,
come a ti Tavanna Rai
buttonaa sul candilee,
ed infin poeu della fera
se la sort la ve petera
sul faccion, tra duu pollee,
roccolaa su ona pedanna,
mi ve mandi el mè alalà
e ve foo mej che poss fà
el salud alla Romana.
(Io, vedendoti tramontare - oh il tramonto degli Dei! -per quelle teste di rapanello che fanno da sostegno al capo, per questi stomaci di balena che ci rosicano fino alla rovina, per i lacchè del Mussolini; per queste schiene flessibili che si sviscerano e s'imbrodano quando lui piscia e quando ha la diarrea, per questi cani attaccati ai fianchi che, in virtú di quella ruota che gira mentre scrivo, vanno in su per tornare giú; io, Tavanna Rai, al tuo tramonto, vedi, spero e vivo, Vivo e prego di avere ancora abbastanza da campare fino al giorno in cui verrà l'ora grande, l'ora santa; e per te, «Eja! », grido, e per loro « Eja! », o teste di cazzo; perdo le staffe, non bado a mezze misure; cavalieri, commendatori, grandi ufficiali, alalà! Al padrone, ai nostri capi, batto le mani i piedi le chiappe, come a te, Tavanna Rai, sospinto fino in cima al candeliere e poi, alla fin la sorte vi spetezza in faccia, li tra due guardie, irretito su una pedana; io vi mando il mio alalà e vi faccio, il meglio che posso, il saluto alla romana.)
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.413)

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