martedì 12 aprile 2011

Nativi digitali / 3

Nell’anno di grazia 1972, io avevo 14 anni e dovevo fare l’abbonamento del treno. Sono andato in stazione con due fotografie e in meno di cinque minuti avevo in mano la tessera: due righe scritte con la biro, due pennellate con la coccoina sul retro della foto, un bel timbro, pagare, e via. Oggi, la tesserina non me la danno più seduta stante, ma me la mandano “comodamente a casa”: o bella, e se io fossi più comodo a passare di qui, dallo sportello? No, non si può, figuriamoci: mi arriverà comodamente a casa, magari domani o dopodomani, chissà; magari il postino suonerà mentre mi sto facendo la barba, dovrò scendere, firmare qualcosa, magari dovrò anche esserne contento.
Nella stazione dei paesi vicini, infatti, non c’è nemmeno più la biglietteria: l’hanno chiusa “perché non rendeva”, come se fosse una gelateria. Se di là vogliono fare l’abbonamento al treno, devono muoversi e andare fino a Como, a Varese, a Saronno, a Milano: bei tempi, quando bastava un timbro su un pezzo di cartoncino...

L’accesso precoce ai cellulari provoca molti cambiamenti
NATIVI DIGITALI, PRIMA GENERAZIONE DI UNA NUOVA SPECIE
di A. Saragosa, Venerdì di Repubblica in data 25 febbraio 2011:
(...) Paolo Ferri, docente di Teoria e tecniche dei nuovi media all'Università Milano Bicocca, ha dedicato al tema il libro Nativi digitali (Bruno Mondadori, pp. 224, euro 18). «Nativi digitali sono quelli che, avendo vissuto fin dalla nascita immersi nelle tecnologie informatiche, le padroneggiano come una lingua madre, a differenza di noi "immigrati digitali" che, cresciuti per lo più nel mondo gutenberghiano dei libri, balbettiamo appena l'idioma di questa nuova terra». (...)
- Perché i nativi digitali soffrono così tanto a scuola?
«In tutte le epoche ci si è annoiati a scuola. (...)Ma oggi c'è un abisso fra il modo in cui i ragazzi ricevono informazioni dagli insegnanti e la loro esperienza extrascolastica. I ragazzi sono cresciuti con YouTube, Google e Wikipedia, in un mondo di informazione immediata, multimediale e aggiornata.».
- Ma è solo un problema di gap tecnologico, o c'è una forma mentale diversa?
«Vivere tutta la vita immersi in un ambiente altamente digitalizzato crea menti diverse da quelle di chi si è formato su libri e immagini statiche. I nativi digitali interagiscono con le tecnologie informatiche con grande naturalezza, sono più bravi a lavorare in gruppo, a compiere più operazioni contemporaneamente, a usare i codici iconografici, e sono molto autonomi e indipendenti, spesso allergici all'autorità. D'altro canto tendono a essere più superficiali, meno riflessivi e perdono facilmente interesse nei compiti che non trovano stimolanti. Si direbbe che si aspettino che le cose si svolgano sempre alla velocità con cui sono abituati a fruirle in rete. Forse erano meno distanti fra loro i padri e i figli che si scontravano nel '68, almeno loro usavano gli stessi media. Oggi fra nativi e immigrati digitali c'è un gap crescente di comunicazione, come dimostrano anche le rivoluzioni dei Paesi arabi, organizzate dalle masse giovanili via Facebook e Twitter, senza che né i vecchi díttatori, né i vecchi oppositori si accorgessero di che cosa stava accadendo».
- E come si interessano questi giovani allo studio?

«Attrezzando lo spazio scolastico con le tecnologie che usano a casa e trasformando i libri cartacei in spazi online, organizzati con materiale multimediale, esercitazioni, test di autovalutazione e link ad altri siti. Paradossalmente occorrerà anche recuperare le idee di pedagoghi di un secolo fa, come Maria Montessori, cioè 1`insegnare a imparare", indicando agli studenti metodi per valutare criticamente, confrontare e ordinare le informazioni che possono trovare ormai con tanta facilità in rete. Questi metodi saranno poi utili anche nel mondo del lavoro, che sarà molto più vario e flessibile del nostro. Inoltre, perché l'apprendimento dia frutti, dovrebbe avvenire non più sulla base di esercizi astratti, come il memorizzare, ma con lo stesso metodo con cui i ragazzi imparano a utilizzare smartphone e tablet, cioè “facendo". Ricerche, elaborazioni, scambi di informazioni fra pari e sperimentazioni... E, tasto dolente, bisognerà ridurre all'osso le materie di studio obbligatorie, lasciando agli studenti la scelta fra molte opzionali».
- Non ne faremo dei rete-dipendenti?
«Non credo, tutte le ricerche dicono che il tempo online non è sottratto al gioco o allo sport, ma alla televisione.»
- In tempi di crisi, è realistico parlare di digitalizzazione dell'insegnamento?
«L'Inghilterra ha speso tredici miliardi di euro per attrezzare le sue scuole con computer e altri dispositivi digitali. Noi ce la caveremmo con meno della metà. Entro l'anno saranno introdotte nelle classi italiane 32 mila lavagne interattive, dispositivi multimediali in grado di connettersi a internet e dialogare con i computer dell'insegnante e degli studenti. Purtroppo non si è pensato alle connessioni internet delle scuole, che spesso mancano o sono insufficienti per un uso di massa. Oppure i dirigenti scolastici si arrangiano seguendo ognuno una strada diversa e, spesso, compiendo errori, come acquistare dispositivi che non comunicano fra loro».
- Il vero nodo sono allora gli insegnanti?
«Gli insegnanti italiani hanno un'età media di oltre 50 anni, molti di loro non conoscono queste tecnologie. Ma nei prossimi anni ci sarà un grande ricambio generazionale, e sono sicuro che l'arrivo di molti giovani in cattedra renderà tutto più facile. Le tecnologie non escludono gli insegnanti, anzi, al contrario, potranno far loro recuperare molta autorevolezza e prestigio. Nelle classi sarà più che mai necessaria una figura di adulto esperto, che aiuti i giovani a scoprire le proprie attitudini e svolga il ruolo di critica dei contenuti, spesso pessimi, che si trovano in rete. E che spieghi ai nativi digitali che parte dell'apprendimento, tecnologie o meno, resta comunque una faticosa acquisizione di nozioni».

“Quest to learn”, una scuola pubblica d’avanguardia
A NEW YORK, ADDIO AI LIBRI: SI STUDIA SUI VIDEOGAME
di Caterina Visco, Venerdì di Repubblica 25 feb 2011
La campanella suona, gli studenti si siedono e, joypad della PS3 alla mano, iniziano una sfida a Little Big Planet. Siamo alla Quest to Learn di New York, una scuola superiore (per ora di primo, in futuro anche di secondo grado) dove al posto dei libri di testo si usano i videogame, Alcuni sono disegnati ad hoc, talvolta dagli studenti stessi, altri sono normali videogiochi sfruttati in maniera particolare. Le materie di studio, invece, sono combinazioni dì quelle tradizionali: The Way Things Work (matematica e scienze), Being, Space and Place (studi sociali e Lea-inglese, letteratura e arte), Codeworlds (matematica e Lea), Wellness (educazione fisica e alla salute) e Sports for the Mind (Game Design).
L'idea di fondo è che i videogiochi immergono gli studenti in problemi complessi, risolvendo i quali non solo si acquisiscono le conoscenze base, ma anche abilità trasversali. Per esempio quella di pensare in maniera innovativa, cooperare, prevedere i possibili sviluppi di una situazione.
In Being, Space and Place, per dirne una, gli studenti devono impersonare un soldato spartano che deve valutare le forze ateniesi e stabilire una strategia d'azione. Nel farlo, secondo le aspettative dell'insegnante, dovrebbero imparare storia, geografia e politica pubblica. In The Way of Things Work, invece, diventando ingegneri incaricati di costruire una piramide, dovrebbero acquisire competenze di matematica, geografia e storia delle religioni.
I videogiochi avrebbero anche un altro pregio: coinvolgono e mantengono gli studenti concentrati sulle lezioni per ore. Ai videogame si aggiungono anche altri strumenti di apprendimento, per esempio Being Me, un social network chiuso, o lo SmalLab, uno spazio fisico dove, grazie a videocamere motion capture e proiettori digitali, si creano scenari con cui interagire.
Gli studenti alla fine dell'anno devono superare gli stessi test dei loro coetanei delle altre scuole. Con una sola differenza: al posto del voto, in pagella, c'è il livello raggiunto.

Sono stato uno dei primi, in famiglia e nella mia cerchia di conoscenti, ad avere un indirizzo mail e ad usare internet: fino da metà degli anni ’90, quando ancora bisognava pagare un provider (e costava caro) per avere l’allacciamento.
E avevo già usato i primi pc, quelli degli anni ’80: non sono mai stato un patito dell’informatica e non amo particolarmente le nuove tecnologie, ma mi piaceva scrivere, raccogliere dati, essere informato. Mi sarei comperato una fotocopiatrice, ma costavano troppo e non c’era spazio in casa; poi con lo scanner e un buon software ho potuto fare cose che non mi sarei mai sognato di fare.
E’ stato per questo che quando, sul lavoro, mi dissero “guarda che non c’è bisogno di cancellare tutta la parola, se usi quel tasto qui e ti sposti fino a qui e poi cancelli con questo qui e riscrivi solo la lettera che hai sbagliato” e intanto io avevo già cancellato e riscritto la parola, cosa ci vuole a riscrivere una parola, se sei al computer? Non era mica una linotype...
Io so scrivere, sono capace di scrivere fin dal 1962 (avevo quattro anni), scrivevo con la penna e il pennino e il calamaio senza fare macchie, cosa vuoi che sia battere tre o dieci tasti... Mi è rimasto il dubbio che quel mio collega fosse un tantino analfabeta, che facesse fatica a scrivere, ed è un dubbio che mi perseguita ancora oggi davanti a tutti quei software che aiutano a scrivere. Posso dirlo, almeno qui? Non ho mai usato il dizionario a scuola, ho letto tanti libri, almeno leggere e scrivere, quello sono capace di farlo: con il gesso, con la matita, con la penna e il pennino e il calamaio, con la macchina da scrivere (non ci riuscirò mai, a dire macchina per scrivere), con il computer, e perfino passando il ditino sullo smartphone (a proposito, è un software che è stato studiato per gli handicappati: colgo l’occasione per ringraziare tutte le persone meravigliose che hanno collaborato a quei brevetti). Una cosa non so fare, e non ci riuscirò mai: non so disegnare come Michelangelo e come Raffaello. Un mio compagno di classe ci andava vicino, a scuola: era molto simpatico ma l’ho invidiato moltissimo e continuo a invidiarlo, perché non sono cose che si imparano, bisogna nascerci (poi è diventato davvero famoso: però come cantante, per un’estate).
Non sono capace neanche di suonare come Yehudi Menuhin o come Maurizio Pollini, e nemmeno come Eric Clapton; e non so nemmeno cantare, sono stonato. Mi sarei accontentato di molto poco, ma anche queste non sono cose che si imparano, non più di quel tanto.
Mi sarebbe piaciuto giocare al pallone, ma ero negato; mi piacerebbe ballare il valzer e il tango, ma sono una statua di marmo; mi piacerebbe ricordarmi i nomi scientifici di tutte le piante e gli animali e i minerali e i composti chimici, ma anche questo non mi riesce mica tanto bene. Ci ho provato, ma non ci sono arrivato. Invece, a scrivere con il pc ci sono riuscito: però non ho ancora provato a passare il mio ditino sulla tastiera di uno smartphone, sono tentato ma chissà mai se riuscirò a farlo, il mio cuore trema nel tentare l’avventura, riuscirò mai a compiere quest’impresa? Ne dubito, ne dubito fortemente, ho visto dei virtuosi che passavano in meno di un secondo da una finestra all’altra dell’ipad, l’ho visto fare anche da dei bambini di due anni, ma io non oso provare. Ahimè, me disgraziato, me meschino.
Come finirà questa storia? Finirà che anch’io smetterò di scrivere, anche su un piccolo blog come questo (avere un blog è ormai obsoleto, si sa), e allora dunque starò zitto e mi metterò in un angolo e smetterò di disturbare. Oppure, magari verrà un blackout generale (senza andare fino a Fukushima, vi ricordate il giugno del duemilatrè?), e allora torneremo al baratto, a scrivere con il la scheggia di mattone sul cemento, e a contare sulle dita delle mani e dei piedi, come si faceva nel tempo dei tempi. Del resto, si sa, il sistema decimale è nato così: c’è chi dice che l’usanza di contare a dozzine, i sessagesimi, eccetera, siano nati dal contarsi le dita delle mani, il naso, il mento: totale dodici, moltiplicato per cinque fa sessanta. Pare che i francesi dicano ancora “quattro-venti” per indicare il numero ottanta proprio per questo motivo, quattro volte le dita dei piedi e delle mani. (Stampate queste ultime righe e tenetele in un cassetto, potranno venirvi comode).

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