sabato 30 ottobre 2010

Polenta e osei

Qui, dove sono nato e cresciuto, c’era granturco ovunque. Adesso non ce ne è più nemmeno un centimetro quadrato, tutto estirpato e cementato con meticolosa cura; ne resiste qualcosa ancora solo verso sud, verso Milano, ma è chiaro che sparirà presto. Faccio l’inventario: dove c’erano i campi di pannocchie (che da generazioni i bambini andavano a rubacchiare, come ovunque, cercando di non fare troppi danni) adesso ci sono: villette a schiera; un centro commerciale; una strada nuova (che serve alle villette a schiera); un parcheggio per autocarri; altre villette a schiera; un parcheggio per automobili; e cos’altro ancora? Beh, non è importante, cos’è successo lo sanno tutti.
Con quel granturco, con il mais, i nostri vecchi facevano la polenta. Viene su facilmente, dà ottime rese, polenta e patate in Lombardia e in Veneto non sono mai mancate. Non si mangiava mica tanto bene, qui al Nord: la cucina buona cominciava dall’Emilia, dal Piemonte, qui c’era solo la polenta e poco altro. Andando su verso le montagne, qualcosa di buono ricominciava ad esserci: i formaggi, il vino, i laghi e la Valtellina, insomma. Qui intorno, a nord di Milano, a mangiare bene si è cominciato solo quando sono arrivati quelli di fuori, i toscani, gli emiliani, i veneti; e poi, dopo gli anni sessanta, anche i pugliesi, i napoletani, i meridionali in genere. Prima, prima di quelli che venivano da fuori (loro sì che sapevano far da mangiare bene!), qui c’era la polenta, la cassoeula (cioè verze col maiale), e poco altro.
Ma adesso, oggi, anno 2010, se uno vuole farsi la polenta deve comperare il granturco da fuori. Se va bene, dal bresciano e dal bergamasco; altrimenti, chissà da dove (saperlo...), magari dal Canada o dall’Ucraina (il frumento viene quasi tutto da lì, i nostri spaghetti e maccheroni in realtà sono canadesi). Una volta eravamo dipendenti dall’estero soltanto per il petrolio e il carbone, oggi lo siamo anche per la polenta – ma guai a dirlo, che si offendono. Bisogna chiudere accuratamente occhi e orecchie, e andare allegramente in compagnia a mangiare polenta e osei in trattoria, come i nostri vecchi però meglio se ci andiamo col fuoristrada da novantamila euro.

Osei, in tutta l’area veneta, sono gli uccelli: che si mangiavano con la polenta. Una volta di osei, qui in giro, ce n’erano tanti; l’inverno scorso ho contato una ventina di passeri, qualche cincia, un pettirosso; quest’anno quasi niente. Estinti anche i passeri, in Lombardia? Si direbbe di sì, passeri e granturco, specie estinte.
Polenta e osei era un mangiare da poveri, da disperati. Di uccellini (dal merlo alla cinciallegra) ce ne erano a milioni, portarne via un po’ a madre natura non era uno scempio come può immaginare chi è cresciuto con i cartoons e la playstation, ed era anzi una fonte di proteine indispensabile per chi non poteva permettersi altro. Polenta e osei, insomma, evoca (o dovrebbe evocare) immagini di fame e di miseria: i tempi in cui ci si ammalava di pellagra e di scòrbuto, malattie bruttissime di cui per nostra fortuna abbiamo perso la memoria, e che derivavano – appunto – da un’alimentazione in cui era presente solo la polenta, e qualche uccellino ma piccolo (di sicuro, ci scappava anche qualche topolino: ma guai a dirlo, polenta e ràtt non lo ammetterà mai nessuno, ma è pur sempre carne bianca). Speriamo che non tornino mai quei tempi, di poter continuare a mangiare la polenta (che è ottima) ma con il gorgonzola, con il parmigiano, con un bell’umido al pomodoro, magari con il peperoncino; e dopo, quando la polenta è finita, un’arancia fresca, magari un mango, ma niente osei prego. Di osei, ne hanno mangiati fin troppi i miei antenati: in loro memoria e in loro onore, un’altra porzione di polenta, magari con la marmellata di prugne e con la mostarda cremonese.

M’estinguerò con l’ultimo dei passeri
che girano qui attorno alla mia casa;
passeri eroici sui rami che traballano
dei pochi alberi rimasti, ed altre cose;
e ormai non so più dir se questa casa,
che fu in campagna, pur senza muoversi s’è mossa.
Ed ora, qui con venti passeri,
con il merlotto e con un pettirosso,
aspetto primavera; e forse è l’ora,
io morirò con questi quattro passeri,
a finger primavera che sia ancora
(la finta primavera mi addolora).
(il trionfo dei SUV e del cemento, 5.3.2007)
(versi di Emilio Gauna, da http://www.golemindispensabile.it/ )

mercoledì 27 ottobre 2010

Leggende metropolitane e lavoratori introvabili

Da quando il mostro di Loch Ness non c’è più (è andato in pensione già da qualche annetto) i giornali che non sanno come riempire le pagine (eppure di notizie ce ne sarebbero tante) non sanno più come rigirarsi. C’è chi si rifugia nel gossip, c’è chi parla dell’ultimo telefilm in novantasette puntate, ma rimpiazzare Nessie è davvero difficile.
Uno dei sostituti più frequenti del mitico dinosauro scozzese è la storia che è stata ripresa nei giorni scorsi un po’ da tutti i giornali e telegiornali: la leggenda del lavoro che c’è, e tanto, ma i disoccupati lo snobbano e preferiscono starsene in casa ad oziare.
Il bello è che la gente ci casca: la notizia piace, questi giovani fanigottoni, degni eredi di Andy Capp, fanno scuotere tante teste in modo affermativo: eh sì, il lavoro c’è, altro che balle. «Se uno ha davvero voglia di lavorare, il lavoro lo trova!» (mi raccomando, sottolineare bene il “davvero”).
Ma sotto, probabilmente, ci sono dei dati veri: allora prendo la lista che pubblica “Repubblica” il 24 ottobre scorso, sotto il titolo “Il fabbisogno di manodopera che resta insoddisfatto”, e provo a ragionarci sopra.
Parrucchieri ed estetisti; Sarti, modellisti e cappellai; Lastroferratori; Pavimentatori e posatori di rivestimenti; Pasticceri e gelatai; Tagliatori di pietre, scalpellini e marmisti; Addetti all’edilizia; tessitori e maglieristi a mano; Panettieri e pastai artigianali; Installatori di infissi e serramenti.
C’è anche un elenco più dettagliato, “federalista”: in Calabria mancano verniciatori industriali, in Trentino non trovano giardinieri, in Veneto mancano le ricamatrici.
Ci sono anche delle vere e proprie barzellette: in Molise pare che manchino insegnanti di sostegno. Beh, questa mi sembra grossa: nel momento in cui impazzano tutti i tagli e i licenziamenti della riforma Gelmini-Tremonti, direi proprio che si tratta di una scusa per non assumere nessuno.
Ma, soprattutto, c’è una cosa che non può passare inosservata leggendo la lista dei mestieri qui sopra: sono quasi tutti lavori che non si improvvisano, serve esperienza. Vorreste avere in casa vostra un installatore di serramenti che, non appena va via, vi vien giù tutta la finestra? Vorreste camminare su un pavimento dove si staccano le piastrelle ed è tutto un saliscendi? Direi di no, questi sono lavori che richiedono grande bravura e ottima tecnica, non sono cose che si improvvisano. I piastrellisti non nascono sotto i cavoli, scalpellini e marmisti non crescono con l’erba al bordo dei fossi: c’è bisogno di formazione.
Ed è proprio la formazione quella che manca, in un’epoca di lavoratori usa e getta. Chi ha più voglia e tempo di prendere un apprendista e insegnargli un mestiere, nel tempo delle delocalizzazioni? Chi ha più voglia e tempo di insegnare bene un mestiere, nell’epoca della Manpower? Di recente, anzi proprio adesso, la Telecom sta licenziando tutti i suoi addetti alla manutenzione: lo dico per chi si fosse perso la notizia, tra una casa a Montecarlo e un mostro di Loch Ness (si tratta di tremila persone, se non ricordo male: quelli che riparano le linee telefoniche di casa vostra).
Altri mestieri, come il fornaio e il pasticcere, magari si imparano in fretta ma richiedono orari davvero pesanti. Io ho fatto il turno di notte in fabbrica per vent’anni, e vi assicuro che non è una cosa semplice: ha avuto ripercussioni pesanti nella mia vita privata (provate a dire, quando avete vent’anni, alla ragazza che vi piace moltissimo e che vi sta davanti, che adesso mi spiace ma devo lasciarti perché ho il turno di notte...). Si dirà: che se uno vuol lavorare, eccetera eccetera. Ok, allora se è tutto così facile mandateci vostro figlio e vostra figlia, a impastare il pane o a montare le Punto alle tre di notte. Vi assicuro che è un’esperienza formativa, fatelo un po’ voi e i vostri figli, per me si tratta già della quarta o quinta generazione di fila, direi che è ora di darsi un po’ il cambio: io nello studio di commercialista, la figlia di Maroni a svitare i bulloni a Melfi, i figli di Bossi a mettere giù piastrelle d’inverno e asfalto caldo nelle strade d’estate. Mica per sempre, sei mesi, così, per vedere che effetto fa.
PS: in un riquadro a parte, la sociologa Chiara Saraceno (sempre su Repubblica 24 ottobre 2010, articoli di Luisa Grion) va a toccare i temi fondamentali:
- Gli artigiani non si trovano, perché?
«Perché non è facile che un diplomato alle magistrali si riconverta subito in idraulico. Ai giovani non vengono date le giuste informazioni, gli istituti tecnico-professionali, eccellenze a parte, non sono in grado di preparali in maniera adeguata e poi le famiglie non spingono di certo i figli al lavoro manuale»
- Come diceva la canzone "Contessa", “anche l'operaio vuole il figlio dottore”?
«Sì, ma questo è lecito. Il problema, semmai, è che il dottore, a tutti i costi, non vuole in figlio operaio. Per coprire la domanda bisogna prima di tutto dare riconoscimenti a queste figure»
- Le imprese hanno qualche responsabilità in proposito?
«Sì, perché l'apprendistato invece di essere considerato un momento di crescita è interpretato solo come un contratto che permette alle imprese di contenere i costi del lavoro. E forse le associazioni di categoria potrebbero fare qualche sforzo per essere più innovative».

sabato 23 ottobre 2010

Il comandante è ottimista

Come molti lettori (moltissimi!) ho una grande passione per Massimo Bucchi (che su http://www.repubblica.it/  ha il suo blog, aggiornato quotidianamente). Bucchi ha una capacità di sintesi fuori dall'ordinario: questa vignetta è del 2004, e il comandante (purtroppo per noi) è lo stesso di sei anni fa.
PS: anche i vice del comandante sono sempre quelli, e forse è questa la vera tragedia.

venerdì 22 ottobre 2010

A Sua immagine e somiglianza

Un solo elemento chimico, dei cento che esistono sulla Terra, è alla base della vita: il carbonio. Ed è il solo elemento, tra quelli presenti sulla Terra, capace di unire i suoi atomi fino a formare delle catene: la molecola più semplice è il metano, quelle più complesse sono gli acidi grassi, le proteine, la cellulosa. L’ormai famosissimo DNA fa parte di questa categoria: anche il DNA è formato da catene lunghissime di atomi di carbonio. Altri tre elementi chimici sono presenti nelle molecole delle creature viventi: ossigeno, idrogeno, azoto. Ma di per sè non garantiscono le strutture adeguate alla nascita della vita, non hanno capacità di associarsi da soli in lunghe e complesse catene capaci di contenere miliardi di informazioni: questa qualità ce l’ha solo il carbonio (ossigeno e idrogeno danno l’acqua; l’azoto è una degli elementi più comuni sulla Terra, presente ad esempio nelle proteine).
Questo per quanto concerne la natura; il discorso andrebbe allargato alle materie sintetiche, opera dell’uomo, come le materie plastiche. Oggi comunissima, la plastica non esisteva prima del ‘900; la sua diffusione su vasta scala inizia dal 1960, ed anche le materie plastiche (PVC, PET, polietilene, nylon, acrilico...) sono formate da catene di atomi di carbonio. Ma stavolta la vita non è presente: le molecole sono molto simili a quelle naturali, ma fino ad oggi l’uomo non è riuscito nel sogno di Frankenstein, dare la vita ad una materia da lui creata.
Esiste sulla Terra, va detto, un altro elemento che è in grado di produrre catene come quelle del carbonio: il silicio. Si tratta dei comunissimi (ormai) siliconi, quelli che si usano per le protesi e per sigillare gli spifferi d’aria nei serramenti. Ma le catene di atomi di silicio non raggiungono mai le dimensioni di quelle del carbonio, e soprattutto non sono mai associate alla vita. Non qui sulla Terra, insomma: può darsi che in altri pianeti la vita sia associata al silicio, ma per adesso non lo sappiamo.
E’ pensando a questa singolare proprietà del Carbonio, unica in natura, che mi è tornato alla mente ciò che dice la Bibbia, al suo inizio: “creato a sua immagine e somiglianza”. Che cos’è di preciso l’argilla a cui siamo abituati ad associare la nascita del primo uomo?
Molti studiosi ed esegeti della Bibbia, e di altri libri sacri, invitano a fare attenzione ai termini e ai numeri che vi troviamo. La Creazione in sette giorni, per esempio: è infantile credere che si tratti di una delle nostre settimane, è invece probabile che quel numero, sette, indichi dei periodi reali e concreti; e che la parola “giorni” sia una semplificazione, o una traduzione molto libera.
Joseph Campbell, uno dei massimi studiosi di Storia delle Religioni, aveva fatto un po’ di calcoli sulle età dei Patriarchi, a partire da Matusalemme, elencati con estrema cura uno per uno nella Bibbia: corrispondono a numeri simili reperibili in libri sacri di altre religioni e sono quasi sempre multipli di tre, di quattro, di dodici: i cicli del sole e della luna, le stagioni, stelle e pianeti. Un modo per trasmettere facilmente nozioni e concetti: è un ragionamento affascinante ma non so che sviluppi abbia avuto, dato che più che altro oggi si corre dietro a stravaganze e a ragionamenti astrusi sulla fine del mondo, alla faccia della divulgazione scientifica. Ma tutti questi dati raccolti da Campbell avevano serie fondamenta astronomiche (si badi bene: “astronomi”, fisici e astronomi, e non studiosi di oroscopi!) e sarebbe bello che se ne parlasse di più, e che la divulgazione arrivasse fino a noi.
Sulla nascita della vita sono state fatte molte ipotesi, ed è uno degli argomenti scientifici più appassionanti. A me piace pensare che ci sia qualche collegamento tra quel passo della Genesi (“a sua immagine e somiglianza”) e la struttura chimica del Carbonio, unico elemento sulla Terra a garantire la vita.

giovedì 21 ottobre 2010

La chiave di tutti i segreti

C’è un oggetto che ogni tanto appare nei film dell’orrore, o magari in Indiana Jones: la tavola magica, il simbolo segreto che svela tutti i segreti dell’umanità; magari affidato a un faraone egizio, a un mago assiro, a Harry Potter o a un alieno di Roswell, magari un anello, un tatuaggio, una pietra o una statua da rimettere al suo posto, e che crea maledizioni e catastrofi ed effetti speciali luminosi, magari in 3D.
Lo so che è antipatico dirlo, ma questa Tavola della Magia esiste già, più o meno dal 1860; e la stiamo già usando da più di cent’anni. I chimici la studiano a scuola, e da almeno mezzo secolo è l’incubo (incubo da interrogazione e da compito in classe) dei sedicenni che fanno la scuola di perito chimico: la stechiometria, il sistema periodico degli elementi.
Così la presenta un grande medico e grandissimo scrittore, Oliver Sacks: il titolo del libro è simpatico (“Zio Tungsteno”: Sacks aveva uno zio che costruiva lampadine) ma mi è sempre sembrato un po' astruso, forse con un altro titolo sarebbe stato un bestseller perché è molto chiaro e molto divertente. Ma, attenzione: questa non è una semplice sequenza di nomi più o meno astrusi, è una visione dell’Universo, della Creazione. Fate attenzione soprattutto ad uno di questi nomi: il Carbonio, su questa Terra, è l’unico degli elementi che è connesso alla vita.
Capitolo XVI - IL GIARDINO DI MENDELEEV (by Oliver Sacks)
Nel 1945 il Museo della Scienza di South Kensington fu riaperto (dopo una lunga chiusura nel periodo della guerra) e per la prima volta vidi la gigantesca tavola periodica che vi era esposta.
La tavola, che copriva un'intera parete in cima alle scale, era in realtà una vetrina di legno scuro con una novantina di scomparti, ciascuno dei quali porta scritto il nome del proprio elemento, il suo peso atomico e il suo simbolo chimico. In ogni scomparto, poi, c'era un campione dell'elemento stesso (quanto meno, di tutti quelli che erano stati ottenuti in forma pura, e che potevano essere esposti in condizioni di sicurezza). Il cartellino informava, « La classificazione periodica degli elementi secondo Mendeleev».
I primi che vidi furono i metalli, esposti a decine in tutte le forme possibili: barrette, cubi, fili, fogli, dischi, cristalli, masse di forma indefinita. La maggior parte erano grigi o argentei, alcuni avevano sfumature azzurre o rosa. In qualche caso le superfici erano brunite e risplendevano debolmente di giallo; poi c' erano i colori intensi del rame e dell'oro.
Nell'angolo in alto a destra c'erano i non metalli - gli spettacolari cristalli gialli dello zolfo e quelli
rossi, traslucidi, del selenio; il fosforo, simile a pallida cera d'api, immerso nell'acqua; e il carbonio, sotto forma di minuscoli diamanti e grafite nera e lucente. C'era poi il boro, una polvere brunastra; e i cristalli di silicio, dalla superficie come increspata, di una lucentezza nera, intensa, simile alla grafite o alla galena.
A sinistra c'erano i metalli alcalini e i metalli alcalino-terrosi (i metalli di Humphry Davy), tutti, tranne il magnesio, immersi in bagni protettivi di nafta. Fui colpito dal litio, nell'angolo più in alto a sinistra, perché, leggero com'era, galleggiava sulla nafta; e anche dal cesio, più in basso, che formava una pozzanghera luccicante sotto la nafta. Il cesio, questo lo sapevo bene, aveva un bassissimo punto di fusione, e quello era un giorno d'estate molto caldo. Tuttavia, non mi ero del tutto reso conto, osservando le minuscole masserelle parzialmente ossidate che avevo visto fino ad allora, che il cesio puro fosse dorato: al principio lanciava solo un bagliore, un lampo d'oro, sembrava emettere un'iridescenza con una lucentezza dorata; ma poi, osservato da un'angolazione diversa, appariva di un color oro puro, e sembrava un mare d'oro, o del mercurio dorato.
C'erano poi altri elementi che fino ad allora erano stati per me solo dei nomi (oppure, in modo quasi ugualmente astratto, dei nomi associati a qualche proprietà fisica e a un peso atomico) e adesso per la prima volta li vedevo in tutta la loro diversità e la loro realtà. In quella mia prima, sensuale panoramica, percepii la tavola come un sontuoso banchetto, un enorme desco apparecchiato con un'ottantina di portate diverse.
A quell'epoca avevo ormai acquisito familiarità con le proprietà di molti elementi e sapevo che essi formavano un certo numero di famiglie naturali, come quella dei metalli alcalini, dei metalli alcalinoterrosi e degli alogeni. Queste famiglie (che Mendeleev chiamò « gruppi ») formavano le colonne verticali della tavola, con i metalli alcalini e quelli alcalino-terrosi a sinistra, gli alogeni e i gas inerti a destra, e tutto il resto collocato in quattro gruppi intermedi situati nel mezzo. Questi gruppi intermedi erano « gruppi » in un modo un po' meno chiaro - nel Gruppo VI, per esempio, vedevo lo zolfo, il selenio e il tellurio. Sapevo bene che questi tre elementi (i miei « puzzogeni ») erano molto simili - ma che ci faceva in mezzo a loro l'ossigeno, proprio in testa al gruppo?
Doveva esserci un principio più profondo - e infatti c'era. Era stampato in cima alla tavola, ma nella mia impazienza di osservare gli elementi, non gli avevo prestato attenzione alcuna. Il principio più profondo, vidi poi, era la valenza.
Il termine valenza non esisteva nei miei libri dell'epoca vittoriana, giacché era stato sviluppato correttamente solo verso la fine degli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo. Mendeleev fu uno dei primi ad avvalersene e a usarlo come fondamento per la classificazione, offrendo così qualcosa che non era mai stato chiaro prima: una base razionale per spiegare la tendenza degli elementi a formare famiglie naturali e ad avere profonde analogie chimiche e fisiche gli uni con gli altri.
(...)La tavola che avevo dinnanzi era dominata da una periodicità in base otto, sebbene si potesse anche vedere che nella parte inferiore, all'interno dei fondamentali ottetti, erano interposti alcuni elementi extra: dieci per ciascuno nei Periodi 4 e 5, e dieci più quattordici nel Periodo 6.
Così si procedeva, osservando ogni periodo completarsi e condurre al successivo imboccando una
serie di curve da capogiro - questa, almeno, era la forma in cui l'immaginavo io, così che la solenne tavola rettangolare che avevo di fronte si trasforma nella mia mente in anse e spirali.
La tavola era una sorta di scalinata cosmica, o di scala di Giacobbe che saliva e scendeva verso un cielo pitagorico.
All'improvviso, fui travolto al pensiero di quanto dovesse esser sembrata sorprendente, la tavola periodica, ai chimici che la videro per primi – chimici che avevano una profonda familiarità con sette o otto famiglie di elementi, ma che non avevano mai compreso la base di quelle famiglie (la valenza), come esse potessero confluire a comporre un unico schema di ordine superiore. Mi chiedevo se non avessero reagito come avevo fatto io di fronte a quella prima rivelazione: «Ma certo! E così ovvio! Come ho fatto a non pensarci io? ».
Indipendentemente dal fatto che uno pensasse in termini di colonne verticali o di righe orizzontali, in un modo o nell'altro si arrivava alla stessa griglia. Era come uno schema di parole crociate, che poteva essere affrontato sia partendo dalle definizioni «verticali » che da quelle «orizzontali », salvo per il fatto che un gioco enigmistico era un costrutto arbitrario, squisitamente umano, mentre la tavola periodica rifletteva o rappresentava un ordine profondo della natura, perché mostrava tutti gli elementi disposti in base ad una loro relazione fondamentale. Avevo la sensazione che essa custodisse un segreto meraviglioso, ma si trattava di un criptogramma senza chiave: perché quella relazione era così? (...)
(Oliver Sacks, da “Zio Tungsteno”, ed. Adelphi – capitolo XVI, Il giardino di Mendeleev)

mercoledì 20 ottobre 2010

Questione di DNA

«Che cos’è il DNA?»  Per saperlo di preciso, si invita in tv una signora che di professione fa proprio la genetista. La dottoressa è molto fine e molto preparata, si vede subito che sa il fatto suo; e la trasmissione divulgativa della Rai è molto ben fatta, ma dubito che adesso, anche dopo questa spiegazione, le cose siano più chiare.
Che cos’è il DNA, più o meno, ormai lo sanno tutti: è perfino diventata un’espressione proverbiale, “ce l’ho nel DNA”,   “questione di DNA”, la polizia che fa i rilievi per cercare il DNA... Ma spiegare che cos’è di preciso il DNA è difficile, e soprattutto per un fatto: che bisogna conoscere la chimica. Se non si è arrivati almeno al terzo anno delle medie superiori (dove i sedicenni degli istituti tecnici studiano la chimica organica), appena si va un po’ oltre la superficie è inevitabile andare in confusione. Insomma, la brutta notizia è che per capire cos’è davvero il DNA bisogna studiare, e non poco.
Però conosco una bella immagine del dna e la voglio portare qui: si trova in “Le meraviglie della natura”, di Elemire Zolla ed è un brano da un’intervista con Erwin Chargaff, uno scienziato che allo studio del DNA diede grande impulso. Gli scopritori della struttura del DNA, come è noto, furono due giovani scienziati: Crick e Watson. I due si fecero fotografare più volte accanto ad una ricostruzione del DNA, e questa è una delle loro foto.
La prima cosa da fare, ci spiega Chargaff, è cambiare posizione alla struttura elicoidale del DNA, quella che nelle illustrazioni è quasi sempre come in questa foto, cioè rigida come una colonna: cosa ci fa lì in piedi quella struttura? Meglio sdraiarla, e magari immaginarla come una sciarpa di seta gettata sul letto.
«La gente che lavora sull'acido desossidoribonucleico non l'ha neanche visto! Ne vede un'ombra. Non l'ha mai isolato, non l'ha mai tenuto in mano! Il DNA è una sostanza fibrosa, bagnata diventa una colla, una gelatina inodora così compatta che non si può colare. A seccarla diventa come i fiocchi di polvere che si raccolgono sulle puntine di grammofono. È una massa fibrosa di sottilissimi aghetti. No, non l'ho assaggiata. Saprà di sale, perché si isola come un sale di sodio... La doppia spirale? È una struttura ideale. Non c'è nessuna prova che nella cellula esista nella forma che le attribuiamo [...] che è una semplificazione statica unidimensionale di una situazione pluridimensionale e dinamica... un paesaggio con un letto di fiume e tutta una geografia, colli di qua, banchi di sabbia di là, una diga... Dire che è una doppia spirale non è dire la verità, tutta la verità... La si può leggere come una doppia spirale in vista di un certo numero di esperimenti e si avrà ragione piuttosto che torto, ecco tutto.» (A. Liversidge, Interview with E. Chargaff, in «Omni», 7, 9, New York 1965.)
(tratto da “Le meraviglie della natura” di Elemire Zolla, ed. Marsilio, pag.527)
Qualche notizia su Chargaff, tratta da wikipedia:  «Erwin Chargaff (Czernowitz, 11 agosto 1905 – New York, 20 giugno 2002) è stato un biochimico austriaco. Emigrò negli Stati Uniti d'America durante il periodo nazista in Germania. Chargaff è ricordato per le sue regole, enunciate nel 1950, che diedero un importante contributo nella determinazione della struttura della molecola di DNA. Chargaff ebbe un figlio, Thomas, dal matrimonio con Vera Broido che sposò nel 1928. Chargaff divenne cittadino statunitense nel 1940. Chargaff eseguì importanti ricerche sul metabolismo dei grassi e sul chimismo degli acidi nucleici, in particolare sul DNA. Ricorrendo alla tecnica di cromatografia su carta riuscì a separare la molecola del DNA nelle sue basi costituenti a determinare la loro percentuale di abbondanza relativa. I suoi studi costituirono un passo decisivo verso la conoscenza della struttura del DNA, evidenziata poi in seguito da Watson e Crick. I dati di Chargaff indicarono che la quantità di purine è sempre uguale a quella di pirimidine.»
Una nota per chi volesse leggere il libro (“Le meraviglie della natura”) per intero: Zolla è stato un grandissimo studioso di storia delle religioni, e anche un grande scrittore, ma probabilmente, come capita quasi sempre agli studiosi di formazione “classica”, mancava delle necessarie nozioni per capire a fondo cosa significano le formule chimiche. In quel libro riesce comunque a fare un bellissimo discorso sull’alchimia ricondotta ai suoi princìpi “pratici” (per esempio descrivendo la distillazione del mercurio a partire dalle rocce e dalle terre che lo contengono, come si faceva nei tempi prescientifici), ma dimentica di citare la Tavola di Mendeleev, nata intorno al 1860, che spazzò via tutte le precedenti teorie, e che di fatto le contiene tutte, essendo la vera e unica Tavola Magica (e anche Alchemica), così perfettamente funzionante e funzionale che è alla base di tutte le invenzioni e le scoperte del Novecento, compresi il telefonino cellulare, il computer, la bomba atomica, e anche il dna.

martedì 19 ottobre 2010

Credere nella fate?

- Lei mi ha dato più di quanto le avevo chiesto. Ne terrò conto.
Così mi disse una signora davanti a Brera, la mattina di un 14 settembre: mi aveva chiesto “ottanta centesimi per un caffè”, io le avevo dato un euro, poca cosa insomma. Era una donna ancora abbastanza giovane, ben vestita, quasi elegante; io ero al primo appuntamento, stavamo decidendo cosa fare quel giorno, avrei avuto quasi un anno di felicità: tante cose, davvero tante, per venti centesimi soltanto.
(non so ancora chi devo ringraziare, l’anno era il 2003).

sabato 16 ottobre 2010

Il caso CISL

Quando si gira per ore intorno all’essenziale, ma guardandosi bene dal nominarlo, vuol dire che c’è sotto qualcosa di grosso. Il “rimosso”: così lo chiamava Freud: che insegnava a tirarlo fuori, a portarlo alla luce. Alle volte, la “materia oscura” è cosa da poco, altre volte è qualcosa di davvero spaventoso: dipende.
Ma qui non sto facendo psicoanalisi, sto parlando dei dibattiti sulla CISL e la UIL che firmano “accordi separati”, cioè senza consultare il sindacato più grosso, direttamente con i padroni del vapore. Sto parlando, per esempio, della Fiat e di Pomigliano d’Arco: le cronache di questi accordi separati hanno riempito le pagine dei giornali, internet, e i palinsesti tv. Se ne parla molto, ma mai che salti fuori la parola giusta: che è Povertà.
Con quegli accordi, con i nuovi contratti di lavoro, con il precariato, gli operai e i lavoratori dipendenti (ma anche molti piccoli industriali e liberi professionisti) sono diventati più poveri. Poveri, come gli extracomunitari e come gli zingari: ci vuol tanto a dirlo?
Ebbene sì, dirlo costa fatica e sofferenza: ma converrebbe parlar chiaro, perché ormai ci siamo. Quando saranno finiti i risparmi (cioè i pochi e benedetti soldi conquistati con lo Statuto dei Lavoratori), saremo tutti in povertà: vestiti come gli extracomunitari, come le badanti, indistinguibili da loro.

L’altra sera li ascoltavo e li guardavo in tv, gli ineffabili: come il buon Formigoni, che inneggia alla signora di Faenza che da operaia si è riciclata assistente per anziani in una casa di riposo, dieci ore filate di turno di notte. “E’ così che bisogna fare!” gioisce il sorridente governatore della Lombardia, cristiano cattolico, seguace di CL e di don Giussani. Cioè: non bisogna stare con le mani in mano, bisogna prendere atto dei cambiamenti, darsi da fare. E sono ragionamenti giusti, non è che si debba voltare lo sguardo altrove, o mettersi a sognare un mondo che non c’è più: ma io aggiungo, non è che poi si debba anche essere contenti.
Contento di un contratto come quello di Pomigliano? Contento di non aver più tempo per la famiglia, di fare un lavoro alienante, di essere pagato poco e senza certezze per il futuro?
Basterebbe, per fare accettare queste cose, aggiungere un “purtroppo”: e smettere di ridere mentre se ne parla, perché la situazione è seria, serissima; anzi, per molti è già tragica. Basterebbe, per fare accettare queste cose, vedere politici e industriali mandare i loro figli, anche le femmine, a lavorare in uno di quei posti, con quelle paghe e con quegli orari.
Mi stai dicendo che è una cosa accettabile, che si può fare? Ok, mandaci tua moglie, tua figlia, tua sorella, la tua segretaria particolare. Mi stai dicendo che è giusto per i nostri figli e fratelli stare in assetto di guerra in Afghanistan, a rischiare la vita ad ogni momento? Ok, che ci vadano (volontari, non imboscati ma a fare i pattugliamenti strada per strada) anche Renzo Bossi e Luigi Berlusconi, due baldi ventenni. Anche Ignazio La Russa, ministro della Difesa, ha dei figli: di sicuro mi ricordo un maschio, anche lui ventenne, ma in Afghanistan e a Pomigliano accettano anche le donne, che ce le mandi, e in prima linea mi raccomando. L’unico ad averci provato, per vedere cosa significa, è stato Giovanni Agnelli jr: che lavorò alla catena di montaggio per alcune settimane, in incognito. Purtroppo per noi, Giovannino Agnelli morì giovanissimo, a poco più di trent’anni, prima delle leggi sui precari: non sapremo mai se sarebbe cambiato qualcosa a partire dalla sua esperienza.
In compenso, sarebbe bello sapere dai Marchionne, dalle Marcegaglia, dai Montezemolo, dai Maroni, dai Berlusconi, dai Mieli, dai Bossi, dai Calderoli (che lista lunga!) ma anche dal Papa e dai suoi vescovi e cardinali, come si applica il loro leggendario rispetto per la famiglia (“la famiglia è sacra!”) con quegli orari e con quei turni, e se sarebbero contenti di vedere i loro figli e nipoti in quei posti, con quegli orari e con quelle paghe. In quei posti, a lavorare duro, e sempre più poveri. Prepariamoci, perché ormai ci siamo; dopo vent’anni di destra (e di Lega) al governo, l’Italia si sta risvegliando: in povertà. Non sarà un bel risveglio.

venerdì 15 ottobre 2010

Anarchici

Ripubblico questo post, datato 12 settembre 2010, con dedica speciale al ministro degli Interni, il leghista Maroni (solo leghista o anche secessionista? ohibò, un secessionista agli Interni!!), che lancia l'allarme sui possibili incidenti ai cortei della CGIL-FIOM, e altri allarmi sui Centri Sociali. Io ragiono così: ma non è il suo mestiere, del Ministro degli Interni, la tutela dell'ordine pubblico anche durante i cortei? Cosa c'è di straordinario? Quando è capitato a me di fare questi discorsi, sul lavoro, e magari anche a ragione, mi hanno sempre risposto seccamente: "Stai solo facendo il tuo dovere". (C'è forse sotto qualcosa che mi sfugge?)
(en passant, il nostro attuale Presidente del Consiglio è stato ferito, meno di un anno fa, durante un comizio mentre era attorniato dai suoi sostenitori: e solo da loro) (ah, a proposito, dimenticavo: e i milioni di fucili pronti a sparare di cui parla Umberto Bossi? una parolina rassicurante in proposito, o si rischia di finire come in Serbia?)

Il mondo degli anarchici è pieno di correnti e di differenze individuali: del resto, come potrebbe essere diversamente? Gli anarchici sono quasi sempre persone tranquille e oneste. Quand’è stata l’ultima volta che un anarchico ha tirato una bomba? Forse cent’anni fa, e comunque i matti ci sono in ogni categoria, anche fra gli agenti d’assicurazione. Quanti morti e feriti hanno provocato gli anarchici negli ultimi cent’anni? Quasi niente, molti più danni hanno fatto le corse in moto e in automobile, per esempio la tanto mitizzata Mille Miglia (come tutti i rallies) ha un bilancio di morti spaventoso, quasi un centinaio tra morti e feriti. Non erano anarchici i nazisti, non era un anarchico Mussolini, nessuno di quelli che hanno sulla coscienza centinaia di morti era anarchico. Eppure, solo gli anarchici continuano ad avere cattiva stampa (eufemismo).
Anarchici, o simpatizzanti anarchici, erano persone come Giorgio Gaber, come Fabrizio de André. Di Gaber, se fate un giro su youtube, troverete un bellissimo filmato dove canta “Addio Lugano bella” (quasi l’inno degli anarchici d’Italia) in ottima compagnia, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Fausto Cigliano, e altri ancora. Gli anarchici sono spesso persone fuori dal comune, magari davvero un po’ matti (vivere senza capi né padroni, figuriamoci) ma innocui e perfino simpatici.
Io non sono anarchico, o magari – chissà - sono così anarchico che non voglio far parte di nessuna organizzazione; ma so che anarchico era anche Luigi Veronelli, enologo e giornalista, che fu molto famoso negli anni passati per una sua rubrica televisiva di vini e gastronomia che conduceva con Ave Ninchi, attrice fiorentina allora famosissima e donna pacifica come poche altre. Insieme facevano un bel duo, ma io oggi vorrei ricordare Veronelli con una piccola raccolta dei versi (non suoi) che pubblicava nella sua rubrica settimanale su L’Espresso, negli anni ’90. La sua era una rubrica di vini e gastronomia, ma ovviamente uno come Veronelli non poteva fermarsi a questo. Buona lettura, con l’avvertenza che i primi versi citati sono un tantino – come dire? – beh, diciamo spinti.

Ma ti masnà, (ragazzo)
ch’it verde il cel
sercand le nivole
o ’n vol d’osej
podras diventé n’omo?

Walter S.Currel, poeta piemontese

Io brindo al sole,
che i grappoli indora;
io brindo al fico,
e alla sua signora.

anonimo, cit. da L. Veronelli

Deh, parliam de’ mosconi
quanta grazia abbia il ciel donato loro
che, trascinando merda,
si fan d’oro.

Domenico Burchiello ( ‘400, fiorentino )

soz ciel n'a homme por quant sit barbue
qui ne la veult avoir en si braz nue...

(poeta provenzale anonimo, cit. da L.Veronelli )

va' mangia con gioia il tuo pane
bevi con cuore allegro il tuo vino

ecclesiaste (citato da Veronelli)

Non ci sono scheletri
nel mio armadio,
solo un angelo rosso
che mi offre da bere
e mi scuote il cuore
tra due dita.
Ma poi,
che razza d’angelo,
è piuttosto uno scherzo del cielo.
Si è venduto le ali,
o forse le ha perse,
in una partita a dadi,
e non può più volare.
E io gli dico,
e io gli chiedo,
e io lo prego,
di andare via, o almeno
di non far rumore quando
sono in compagnia.
Ma lui resta lì, immobile,
beffardo e silenzioso,
e mi innonda la bocca
di desiderio.

( da Vinerotìe, di Gianni Toti e Mariella De Santis, cit. da L.Veronelli )

Amico, so che Venere ti tiene
ora in balìa.
Felice te ! ti corre
il sangue nelle vene più gagliardo,
ti si chiude la gola a volte e sosta
per troppa gioia il battere del cuore.
Ma se tempo verrà - né venga mai -
che del fuoco la cenere sol resti,
e tu allora a cercar vieni l'amico.
Lo troverai nella taverna che ha
ai vetri stinte tendine rosse
e scritto per insegna: Al Goto Grosso.
Io non ti chiederò di te e di lei.
Spingerò verso te colmo il bicchiere
perché in silenzio con l'amico beva
l'oblìo.

(Camillo Sbarbaro, cit. Veronelli)

Stanotte vorrei parlare con l’angelo
che forse riconosce gli occhi miei.
Se lui brusco chiedesse vedi l’Eden?
e io dovrei dir: sì, vedo fiamme.

(R.M.Rilke, citato da me medesimo in attesa di rivedere “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders.)

giovedì 14 ottobre 2010

La partita con la Serbia

“Una strage evitata” e “La Serbia non ci ha informati” sono due frasi del ministro Maroni (cito a memoria) che ieri hanno riportato tutti i mezzi d’informazione; e si riferiscono agli incidenti occorsi durante la partita di calcio Italia-Serbia, sospesa dopo sette minuti dall’inizio appunto per via dei gravi incidenti causati da delinquenti giunti da Belgrado. I suddetti delinquenti sono stati subito arrestati, tutti quanti, e davanti alle loro foto lì per lì a me è venuto da ridere: questo qua che lanciava i fumogeni si era messo il passamontagna, ma aveva la maglietta a maniche corte e le braccia piene di tatuaggi...Un po’ come se si fosse coperto la faccia per poi esibire nome, cognome, indirizzo, data di nascita, codice fiscale, codice iban...E qui ho cominciato a capire: un’azione ben riuscita, si voleva avere visibilità per protestare contro l’indipendenza del Kossovo. Un’azione ben riuscita, chi si ricordava più del Kosovo?, ottenuta semplicemente mandando allo sbaraglio una decina di imbecilli, che non mancano mai e che oltretutto lavorano gratis.

Tornando alle dichiarazioni di Roberto Maroni, ministro dell’Interno già da un bel po’ di tempo, c’è da preoccuparsi. “Una strage evitata”: qui siamo d’accordo, come tifoso juventino ho ancora negli occhi le immagini della finale di Coppa Campioni allo stadio Heysel; ma per la “strage evitata” ringrazio Polizia e Carabinieri, cioè le persone che erano di servizio allo stadio e nei dintorni e che hanno rischiato la loro incolumità fisica per noi (capita tutte le volte che c’è una partita di calcio, en passant; ma di solito non se ne parla).
Merita più attenzione la seconda frase, “La Serbia non ci ha informati”: detta da un ministro degli Interni, è roba da dimissioni immediate. La Serbia doveva informarci? Ma, santo Cielo, erano settimane che i cetnici serbi facevano sfracelli, bastava leggere i giornali. Il problema era forse questo: che i principali problemi erano nati ad una sfilata di omosessuali a Belgrado. Magari sbaglio, ma me li immagino, Maroni e i suoi, e i commenti su questi qua che aggredivano e pestavano gli omosessuali; magari anche qualche risatina, chissà. Sta di fatto che “questi qua” hanno attraversato indisturbati tutta la Padania (da Trieste a Genova, suppongo) e poi sono entrati allo stadio con lanciarazzi e fumogeni, e chissà cos’altro avrebbero potuto portare, se solo avessero voluto. “Questi qua” andavano fermati alla frontiera e perquisiti: ma in Italia, e soprattutto in Padania, si fermano e si perquisiscono solo i padri di famiglia e gli studenti che si portano dietro l’ombrello allo stadio quando piove (l’ombrello, pericolosissimo!). La tessera del tifoso: come si è visto, utilissima più che altro per far pagare più abbonamenti alle reti tv Mediaset.
Concludendo, e sono informazioni che chiunque può avere, soprattutto se si nasce e si abita in Lombardia e si ha più o meno l’età di Maroni, qui c’è molta gente che approva chi va in giro a sprangare “negri e marocchini”. E’ tutta gente che vota per lei, ministro Maroni: se li figura, “questi qua”, a votare per Veltroni e per Casini? La prossima volta che vuole evitare una strage, provi a guardarsi in casa.
PS: ieri ho letto anche una bella intervista a Walter Zenga, ex calciatore che in Serbia ha vinto uno scudetto allenando, se non ricordo male, la Stella Rossa di Belgrado; e che quindi conosce benissimo la situazione. Dice, tra le atre cose, che in Serbia c’è moltissima brava gente, ma purtroppo ci sono anche “questi qua”; che adesso hanno vinto, tutta l’Europa parla di loro, molto meglio di una campagna pubblicitaria. Ecco, forse bastava fare una telefonata a Walter Zenga...

lunedì 11 ottobre 2010

Roberto Leydi

Roberto Leydi, torinese, parlava del dialetto come arricchimento: può succedere che si parli un italiano lessicalmente povero, magari sgrammaticato; in questi casi il proprio dialetto può essere un arricchimento, l’unione della lingua italiana povera di vocaboli con la ricchezza lessicale del dialetto è sicuramente un’ottima cosa. Però c’è anche un aspetto negativo del dialetto: «...Vi è anche un altro modo attuale di recupero del dialetto, che è quello di tipo reazionario: per esempio quello di una certa borghesia torinese che recupera il dialetto in funzione anti immigrati, il dialetto visto come distinzione dei “piemontesi veri” rispetto ai piemontesi “falsi” e non voluti...»
(Roberto Leydi, da un’intervista alla Tsi degli anni ’80).
Roberto Leydi (1928-2003) è stato un grande studioso di etnologia e di musicologia. Per più di cinquant’anni, Leydi ha girato l’Italia, con grande amore e attenzione, registrando e filmando la grande cultura popolare; il suo archivio è immenso e importante, ma l’Italia (men che meno quella del Nord) non lo ha voluto, e adesso l’archivio Leydi si trova in Svizzera, a Bellinzona: ben custodito e ordinato. Ed è ben strano che proprio la Svizzera ospiti i canti popolari italiani, magari quelli del Salento e non solo quelli lombardi, ma così sono andate le cose. Penso che nel disinteresse italiano (e “padano”) verso Leydi ci siano due motivi fondamentali: 1) tutto ciò che è vera cultura non interessa a nessuno. I discorsi sull’importanza della tradizione fatti dalla nostra destra leghista sono solo chiacchiere, fesserie: si osannano la cultura tradizionale e il dialetto, e poi si fa scempio del territorio, asfaltando e cementificando ogni minimo spazio, laghi e montagne comprese. 2) Leydi era di sinistra, l’amore per la tradizione gli veniva dall’essere veramente e profondamente di sinistra, cioè dalla vicinanza con la gente povera, con i contadini, le mondine, gli operai, i ferrovieri...
PS: di recente, ho ascoltato in tv il deputato leghista Borghezio dire che “questi discorsi una volta li faceva la sinistra”, intendendo il recupero del dialetto: ebbene, alle facce di tolla non c’è un limite. L’opposizione da sinistra alle politiche leghiste è dovuta proprio a quello che diceva Leydi: un conto è usare il dialetto come arricchimento, come lingua nativa e sorgiva; un conto è usarlo per rinchiudersi, come facevano e fanno tuttora le bande criminali. Il gergo della mala, che è una specie di dialetto, serviva per non farsi capire dalla polizia e dagli estranei; ma qui di estranei non ce ne sono, il dialetto era solo la lingua madre di molte persone, e viveva in un ambito poco più che familiare (bastano due o tre chilometri per cambiare dialetto, anche profondamente), con un minimo sforzo ci si capiva anche tra dialetti diversi, ed è sempre bello sentire parlare una lingua materna, sorgiva. Quello che fa la gente come Borghezio è tutta un’altra cosa, e so che molti si ricordano che circola da tempo in rete un filmato dove un signore che gli somiglia molto fa lezioni ai giovani su come far penetrare il nazismo travestendolo da “difesa degli usi e costumi locali”.


sabato 9 ottobre 2010

Monteverdiana ( III )

DAL TERZO LIBRO DEI MADRIGALI
testi musicati da Claudio Monteverdi

O dolce anima mia,
dunque è pur vero
che cangiando pensiero
per altrui m'abbandoni;
se cerchi un cor che più t'adori et ami
ingiustamente brami;
se cerchi lealtà, mira che fede
amar quand'altrui doni la mia cara mercede,
e la spietata tua dolce pietate.
Ma se cerchi beltate
non mirar me, cor mio, mira te stessa,
in questo volto, in questo cor impressa.
(Guarini)

Perfidissimo volto
ben l'usata bellezza in te si vede,
ma non l'usata fede.
Già mi parea vidir queste amorose
luci, che dolcemente
rivolgo a te sì belle e sì pietose:
prima vedrai tu spento
che sia spento il desio ch'a te le gira.
Ahi, ch'è spento il desio, ma non è spento
quel per cui sospira
l'abbandonato core.
O volto troppo vago e troppo rio,
perché se perdi amore non perdi anco vaghezza?
O non hai pari a la beltà fermezza?
(Guarini)

Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure,
mie giuste furie, forsennato, errante;
paventerò l'ombre solinghe e scure
cheI primo error mi recheranno inante,
e del sol che scoprì le mie sventure,
a schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo; e da me stesso
sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.
(Tasso)


"Rimanti in pace", a la dolente e bella
Fillide Tirsi sospirando disse.
"Rimanti, io me ne vo; tal mi prescrisse
legge, empio fato, aspra sorte e rubella."
Ed ella, ora da l'una a l'altra stella,
stillando amaro umore, i lumi affisse
nei lumi del suo Tirsi, e gli trafisse
il cor di pietosissime quadrella.
Ond'ei di morte la sua faccia impressa
disse: "Ahi come n'andrò senza il mio sole
di martir in martir, di doglie in doglie "
Ed ella, da singhiozzi e pianti oppressa,
fievolmente formò queste parole:
" Deh, cara anima mia, chi mi ti toglie?"
(Grillo / Celiano)

giovedì 7 ottobre 2010

Chi vota Lega dorme in piedi?

Le tasse, per esempio: la prima cosa che fece la giunta di Formigoni, in Lombardia, fu mettere una tassa. La chiamano ticket, ma è una tassa: il ticket sulla sanità. Questo è un governo di pubblicitari, i pubblicitari sono specialisti nell’incartare le cose vecchie e odiose e trasformarle in cose nuove e appetibili: si chiamano “ticket” ma sempre tasse sono, e salate.
Quattrocento euro al mese per la scuola: vi sembra poco, vi sembra tanto? Prima di Bossi e delle sue pensate sul federalismo, si pagava tutto con l’Irpef. Adesso si paga l’Irpef come prima, e in più ci sono i 400 euro per la mensa. Se non li avete, se magari la ditta dove lavoravate da vent’anni ha chiuso e si è spostata in Romania, il vostro bel bambino i leghisti ve lo buttano fuori, in castigo: non è una mia esagerazione, è la cronaca di questi ultimi mesi. E’ successo più volte in Veneto, per esempio: se qualcuno ha voglia di cercarsi i riferimenti precisi lo faccia, io non ho figli e posso anche non pensarci; ma prendiamo per esempio la scuola di Adro, nel bresciano. Tutti hanno parlato dei simboli leghisti in quella scuola (scuola pubblica, non privata), pochissimi hanno sottolineato un altro dato: che i genitori pagano due volte le tasse, cioè pagano il doppio. Quei simboli leghisti messi dappertutto sono costati una fortuna, e li hanno pagati – cash – i genitori dei fortunati bambini di Adro. Non vi piace? La porta è lì, il cancello è aperto, foeur di ball.
I parcheggi: io sono arrivato a quarant’anni senza mai vedere un parchimetro, al massimo (ma raramente) mettevo il disco orario. Adesso, quanto costano i parcheggi? Quanto vi è costata la multa, l’ultima volta che siete andati in posta o dal dentista e avete perso un po’ più di tempo dal previsto? Prima, solo dieci o dodici anni fa, non era così: i Comuni non avevano bisogno di taroccare i semafori per avere introiti, si pagava tutto con l’Irpef (basta lo 0,5% su scala nazionale per coprire un sacco di spese fondamentali), adesso con la bella pensata del federalismo si paga tutto due volte, una a Roma e una a casa vostra. E, mi raccomando: i punti sulla patente. Non ci sono mica solo le multe, se passate col giallo e il giallo oggi dura la metà del tempo che durava ieri, vi fottono anche la patente, oltre ai cento euro di multa. Nei casi disperati, i Comuni rimasti senza fondi fanno così: cambiano di nascosto i limiti di velocità. Ieri era settanta all’ora, oggi è cinquanta all’ora: e non si può neanche più discutere col vigile, fa tutto il robot, la videocamera, il computer.
Poi c’è il paese veneto dove chi bestemmia prende 300 euro di multa: e subito inchieste tv, tutti a discutere beatamente (beotamente?) se è giusto bestemmiare oppure no, con tanto di pareri pensosi richiesti ai passanti, sono d’accordo col sindaco no non sono d’accordo col sindaco, e il sindaco del paesotto che diventa una star dei salotti tv. Come se questo fosse il punto: a prescindere dal fatto che la notizia giunge il giorno dopo che Berlusconi ha bestemmiato pubblicamente (e senza nemmeno essersi tirato una martellata sul dito), bestemmiare è una cosa brutta, così come pisciare per strada o buttare le bottiglie di vetro per strada.
Il punto non è questo, il punto è che le multe, soprattutto dopo gli ultimi tagli di Tremonti, sono diventate il principale introito dei Comuni italiani: perciò prepariamoci a un futuro di multe sempre più fantasiose, magari un domani multeranno tutti quelli che non vanno a Messa, o tutti quelli che non si chiamano Umberto o Silvio, o tutti i calvi, o tutti i maschi coi capelli troppo lunghi o tutte le signore coi capelli troppo corti. Dopo la grande truffa dei semafori taroccati, del resto, cos’altro attenderci? Qui dalle mie parti, ci sono comuni che anche sulle più piccole salite hanno messo cartelli con l’obbligo delle catene e delle gomme da neve per tutto l’inverno – ma non chiamatele tasse, sono ticket, sono multe, sono tutte cose pensate per la vostra sicurezza.
A proposito, già che ci siamo: che mestiere faceva il Bossi prima di fare il ministro? Che cosa faceva il Maroni? E’ vero che stanno appoggiando un governo fondato su un corruttore e un mafioso (condanna su due gradi, attesa conferma in Cassazione) ?
Ma forse ho già fatto troppe domande, vedo le testoline dell’elettore leghista che stanno già fumando. Ok, questo è il momento dell’interruzione per parlare degli zingari e degli extracomunitari comunisti omosessuali deviati: prego, prego, fate pure, in tv funziona così, perché mai sottrarmi a questa delizia. (Roma ladrona? ma se i ministri sono tutti lombardi: Bossi di Gemonio, Maroni di Varese, Berlusconi brianzolo, Calderoli bergamasco, Tremonti di Sondrio, Gelmini di Brescia....).

lunedì 4 ottobre 2010

O my prophetic soul

Detto che "O my prophetic soul" è una frase di Amleto (William Shakespeare), le immagini qua sotto sono, nell'ordine:
1) l'anima profetica di Sergio Staino. ("monumento al conflitto d'interessi", fine anni '90)
2) una notizia da "La Repubblica" di questi giorni (edizione milanese).
3) un mio personale montaggio del porcile che ci governa. (oh, sia ben chiaro: sto scherzando! è una battuta! che poi non si fraintenda!)



domenica 3 ottobre 2010

The Doors

Non a tutti piacevano i Doors. E’ vero, hanno avuto un enorme successo e venduto milioni di dischi e ancora oggi sono annoverati tra i grandi miti della musica; ma non piacevano proprio a tutti, anzi. Molti si aspettavano qualcosa tipo Elvis Presley o i Deep Purple, invece era tutta un’altra musica; e io i dischi li prestavo volentieri, facevo copie su cassette, e poi alcuni erano contenti, altri invece mi dicevano, molto delusi: “Ma i Doors sono questa roba qui?”.
Pensare all’organico dei Doors aiuta un po’ a capire il disagio e lo sconcerto dei patiti del rock: chitarra, batteria, organo, voce. La batteria e la chitarra elettrica, John Densmore e Robbie Krieger, sono abbastanza tranquillizzanti: la chitarra può ben fare la parte ritmica, fin qui ci siamo. Poi c’è l’organo di Ray Manzarek, e le cose cominciano a non tornare: è rock questo? Basta ascoltare “Light my fire” per capire che non è rock, non è jazz, e non è nemmeno musica classica. Siamo, piuttosto, dalle parti degli organetti di barberia e delle fisarmoniche: una cosa voluta, volutissima, perché Ray Manzarek è un musicista molto attento e molto preparato. Gli organetti di barberia sono quelli che si suonavano agli angoli delle strade quando ancora non c’erano i dischi e la musica registrata: una manovella, magari una scimmietta ammaestrata, quella roba lì. Trovare una cosa simile in un gruppo rock è davvero strano, ma capitava, e non solo con Ray Manzarek: i musicisti, quelli veri, sono sempre attenti e curiosi e sanno fare queste fusioni di genere.
E poi c’è Jim Morrison.

Reduce dalla visione di “A tribute to Jim Morrison”, un bel documentario che raccoglie interviste e filmati d’epoca, mi sono chiesto: cosa mai capirà, un ventenne di oggi, del mito di Jim Morrison? Guardando il documentario è infatti difficile capirlo, perché per dire che Morrison era grande si usano le stesse parole e le stesse espressioni che ormai si usano per chiunque – a dar retta alle tv e le radio commerciali, chiunque può diventare un mito.
Cosa distingue Jim Morrison da altri “miti” degli anni seguenti, gente come Freddy Mercury, come Kurt Cobain, come gli U2, e come molti altri che non sto ad elencare? Innanzitutto, bisogna distinguere un “mito generazionale” (la terminologia è orrenda, chiedo scusa) cioè qualcosa che piace ai giovani che avevano 12-18 anni in quel periodo, da qualcosa che dura nel tempo e che è un evento che va oltre le generazioni. C’è musica che viene eseguita ed ascoltata ininterrottamente da 250 anni, e anche da 400: nessuno di noi umani può vivere così a lungo da avere nostalgia del 1791, o del 1605. Quindi, Morrison ha davvero qualcosa di fuori del comune: innanzitutto, non è un cantante vero e proprio, ma un uomo di teatro. Manzarek racconta che lo conobbe ad un recital di poesie: erano composizioni sue, di Jim Morrison. Insieme, provarono ad adattare quei versi alla musica, e funzionava: ma anche questa non è una cosa inedita, anche Leonard Cohen e Francesco Guccini nascono così. Il mistero rischierebbe di rimanere irrisolto, se non fosse per un indizio chiaro, e ben indicato dai Doors stessi fin dagli inizi: sul primo album, il più famoso, quello che contiene “Light my fire” e “The end”, c’è un brano – quello che sorprese di più i miei amici che non conoscevano i Doors – che porta due firme illustri. Non “The Doors” come gli altri brani, ma Bertolt Brecht e Kurt Weill: Alabama Song, da “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”. Ecco da dove viene l’organetto di barberia, ecco da dove viene la voce da attore di teatro di Jim Morrison: ma io sono cresciuto negli anni ’70, Brecht era ben presente in quegli anni. Giorgio Strehler in teatro lo affidava alle voci di cantanti famosi, da festival di Sanremo: Domenico Modugno (grandissimo nell’Opera da tre soldi), Massimo Ranieri (altrettanto bravo in “L’anima buona di Sezhuan”), perfino Milva faceva recital brechtiani. I musicisti di Brecht, Kurt Weill ma anche Hanns Eisler e Paul Dessau, erano di formazione classica ma avevano deciso di scrivere musica semplice, facilmente comprensibile: da loro nacque il grande teatro berlinese, quello a cui si rifanno Ray Manzarek e Jim Morrison, e che rende unica, nel panorama del rock, la loro musica. Oggi Brecht è stato vittima di una campagna di stampa che tende a ridurlo a poca cosa, ma Brecht non è né noioso né troppo politicizzato. Questo post è un invito a leggere Brecht, ad ascoltare Gisela May, e poi a ritornare a Jim Morrison, a Ray Manzarek, a The Doors.
Whiskey Bar (Alabama Song)
(Brecht, Weill)
Well, show me the way
To the next whiskey bar
Oh, don't ask why
Oh, don't ask why
Oh, show me the way
To the next whiskey bar
Oh, don't ask why
Oh, don't ask why
For if we don't find
The next whiskey bar
I tell you we must die
I tell you we must die
I tell you, I tell you
I tell you we must die
Oh, moon of Alabama
We now must say goodbye
We've lost our good old mama
And must have whiskey, oh, you know why...
Well, show me the way
To the next little girl
Oh, don't ask why
Oh, don't ask why
Show me the way
To the next little girl
Oh, don't ask why
Oh, don't ask why
For if we don't find
The next little girl
I tell you we must die
I tell you we must die
I tell you, I tell you
I tell you we must die

venerdì 1 ottobre 2010

Syd Barrett

Syd Barrett è stato il fondatore dei Pink Floyd. A detta dei suoi amici e compagni d’avventura, che lo hanno spiegato più volte, Syd Barrett era i Pink Floyd, e i Pink Floyd erano Syd Barrett: nel primo 33 giri del gruppo, “The piper at the gates of dawn”, Barrett (voce e chitarra) è l’autore di quasi tutti i brani; e la BBC e i giornali lo avevano scelto come immagine del gruppo, perché Barrett piaceva, e molto, anche come persona.
Fu quindi un grave colpo quando, già molto famosi, i Pink Floyd si accorsero di non poter più contare su Syd Barrett: che era non soltanto il loro leader, ma un carissimo amico e un ragazzo fantastico. Syd Barrett, da un certo punto in avanti, non c’era più: o meglio, c’era, ma a tratti. La diagnosi di una seria malattia mentale, aggravata dall’uso continuo di droghe pesanti (soprattutto allucinogeni) portò i Pink Floyd ad escludere gradatamente Barrett dal gruppo: prima affiancandogli David Gilmour (amico personale di Syd e degli altri tre) poi lasciandolo direttamente a casa. Non era possibile comportarsi diversamente, perché Barrett era sempre più spesso presente solo in senso fisico: non poteva quasi più suonare né cantare, non certo in maniera continuativa e affidabile. Da allora i Pink Floyd dovettero – come loro stessi spiegano – “imparare a suonare” e a fare sul serio; ci riuscirono molto bene, come sappiamo tutti, ma la ferita e il rimpianto per l’amico rimasero fortissimi, e ispirarono – qualche annno dopo – alcuni dei loro brani più famosi: “Shine on you crazy diamond” (il “diamante pazzo...”) e “Wish you were here” (Vorremmo che tu fossi qui). Ma già prima, in “If” (su “Atom heart mother”) il bassista Roger Waters aveva dedicato a Syd Barrett alcuni versi molto affettuosi ed espliciti sulla malattia mentale e sulla sua cura, spesso brutale.
Con l’aiuto di David Gilmour e degli altri, Syd Barrett riuscì in seguito a pubblicare due dischi, e anche a iniziare una tournée, ma senza riuscire a concluderla. Sono due dischi strani, realizzati in maniera fortunosa, ma che contengono alcune canzoni bellissime, non canzoni comuni ma vere e proprie perle rare.
“Rich and strange”, ricco e strano, come dice Shakespeare nella Tempesta: così era Syd Barrett, inimitabile. E qui confesso, lo dico apertamente: a me i Pink Floyd piacciono solo fino ad “Ummagumma”, quando Barrett già non faceva più parte del gruppo (siamo nel 1969); quello che è venuto dopo è sempre bello ma non sono mai riuscito a farmelo davvero piacere. Non mi stanco mai di riascoltare “Bike”, mi piace tantissimo “See Emily play”, trovo assolutamente fuori dal comune “The Nile song” anche dopo trent’anni che la ascolto, ascolto sempre assorto “Cirrus minor”, dico e confermo che “Relics” (una semplice raccolta di 45 giri, secondo i dizionari) è il disco più bello non solo dei Pink Floyd ma forse di tutta la storia del rock.

Molto belli (e strani, e intraducibili, sia per il ritmo che per i giochi di parole) sono anche i testi scritti da Syd Barrett, degno erede di Lewis Carroll e di Edward Lear. Riporto qui il testo di “Bike” e, più sotto, una sorpresa che ho trovato su “The madcap laughs”, il primo album di Syd Barrett dopo la malattia: le parole non sono sue, sono di James Joyce (con una sola modifica: "a midnight air" invece di "a merry air"); e la musica che vi abbina è la cosa più bella e più strana che io abbia mai ascoltato. Ancora oggi, quando ascolto Bike e Goldenhair, rimango incantato; e ritengo Syd Barrett uno dei più grandi musicisti del Novecento (e, sia ben chiaro, queste cose qui le dico e le scrivo molto raramente).
Bike
(Barrett)
I've got a bike. You can ride it if you like.
It's got a basket, a bell that rings and
Things to make it look good.
I'd give it to you if I could, but I borrowed it.
You're the kind of girl that fits in with my world.
I'll give you anything, ev'rything if you want things.
I've got a cloak. It's a bit of a joke.
There's a tear up the front. It's red and black.
I've had it for months.
If you think it could look good, then I guess it should.
You're the kind of girl that fits in with my world.
I'll give you anything, ev'rything if you want things.
I know a mouse, and he hasn't got a house.
I don't know why. I call him Gerald.
He's getting rather old, but he's a good mouse.
You're the kind of girl that fits in with my world.
I'll give you anything, ev'rything if you want things.
I've got a clan of gingerbread men.
Here a man, there a man, lots of gingerbread men.
Take a couple if you wish. They're on the dish.
You're the kind of girl that fits in with my world.
I'll give you anything, ev'rything if you want things.
I know a room full of musical tunes.
Some rhyme, some ching. Most of them are clockwork.
Let's go into the other room and make them work.
(Syd Barrett and The Pink Floyd, “Bike”)

James Joyce, Chamber Music (1907)
(musicata da Syd Barrett in “The madcap laughs”)
Lean out of the window,
Goldenhair,
I heard you singing
A merry air.
My book is closed,
I read no more,
Watching the fire dance
On the floor.
I have left my book:
I have left my room:
For I heard you singing
Through the gloom,
Singing and singing
A merry air.
Lean out of the window,
Goldenhair.
(Sporgiti alla finestra, capelli d’oro; ti ho sentita cantare un’aria felice. Chiudo il mio libro, non leggo più, guardo il fuoco danzare sul pavimento. Ho lasciato il mio libro, ho lasciato la stanza: perché ti ho sentita cantare, attraverso la malinconia, cantare e cantare, un'aria felice. Sporgiti alla finestra, capelli d’oro ).