mercoledì 5 agosto 2009

Shostakovic

Si può coniugare il dramma con la buffoneria, la tragedia con il clownesco? E' quello che ha fatto, per tutta la sua vita, Dimitri Sciostakovic. E' per questo che, rovistando tra i pareri critici da trent'anni in qua, ne ho sempre trovati molti sconcertati o perplessi; ed è per questo che è fin troppo facile trovare appiccicati a Shostakovic una lunga sequela di luoghi comuni, come mai a nessun altro, a partire da quell'aggettivo: sovietico. Conosco Shostakovic da un tempo immemorabile, ma non per modo di dire: da prima del 1975, quando ascoltai qualcosa di suo per radio, e me ne innamorai all'istante. Ero andato a cercarlo sull'enciclopedia, cercando conferma per un nome così strano: forse con le trascrizioni moderne non l'avrei mai trovato, ma Sciostakovic, sulla mia vecchia enciclopedia, c'era; e scopersi che era ancora vivo, e nemmeno troppo vecchio, classe 1906. Da giovane, ha un viso da bambino, con gli occhiali rotondi e i lineamenti fini che, visti oggi, rimandano stranamente ai film di Harry Potter; andando avanti con l'età, lo troviamo chiuso e preoccupato, e per le ottime ragioni che possiamo ben immaginare. Perché la biografia di Shostakovic corre parallela, per più di 30 anni, a quella di Stalin; e Stalin faceva davvero paura, in quegli anni. Come per Bulgakov, la vicenda di Shostakovic (artistica e personale) è strettamente legata a quella di Stalin. Stalin era un diavolo grande e grosso, molto potente, di quelli che si possono trovare leggendo "Il Maestro e Margherita"; per lo scrittore e per il musicista aveva un rapporto quasi protettivo, ben confermato da lettere e testimonianze; li lasciava fare, ma ogni tanto si faceva sentire, quasi sempre un po' da lontano: "Come mai, caro compagno Dimitri, mi scrive di queste cose?" Ed erano brividi giù per la schiena dello scrittore, o del musicista. Zhdanov, cioè Stalin, bocciò molte opere di Shostakovic. Come sia possibile bocciare, per motivi politici, un quartetto d'archi o una sinfonia, è un mistero per me insondabile; trovo un paragone possibile solo con avvenimenti recenti, relativi alla programmazione delle tv e delle radio commerciali. Va bene solo ciò che si può vendere, oppure solo ciò che piace al popolo: in entrambe le posizioni, è severamente vietato essere originali e cercare strade nuove, è vietato essere troppo cupi, ed anche scherzare diventa pericoloso. Di Shostakovic, che quest'anno compirebbe cent'anni, sono famose le sinfonie n.5, le n.7 e n.8 (scritte in tempo di guerra, sotto l'assedio nazista), ed è diventato famosissimo, dopo l'ultimo film di Kubrick, uno dei suoi valzer dalle "Suites per orchestra jazz". Il catalogo delle opere di Sciostakovic è molto vasto, per fortuna, e non saprei cosa consigliare d'altro, a chi non lo conosce: sicuramente la bellezza e la profondità dei suoi Adagi, forse i due Concerti per pianoforte, soprattutto il secondo, tra Ravel e Gershwin, che è un'oasi di pace in mezzo a un periodo cupo e terribile. Perché Shostakovic, come Stravinskij e come Prokofiev, aveva una caratteristica che ai critici non piace, e spesso neanche al pubblico: è eclettico, non etichettabile, sa far di tutto e tutto bene, e sempre con grande originalità e personalità. E quello che io amo di più nella sua musica è ciò che più sconcerta al primo ascolto: il tragico fuso con il comico, il clown e l'Amleto, il Matto e il Re, come in Shakespeare, come in Beckett, e come nella nostra vita.
Giuliano 30 aprile 2006

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