sabato 1 agosto 2009

Charles Ives

«Gli archi devono suonare fuori dalla scena, sempre pianissimo. Essi rappresentano il silenzio dei druidi e non sanno, non vedono, non sentono nulla. La tromba intona l'eterna domanda sull'esistenza, passivamente, rimanendo sempre sulla stessa nota. I legni, infine, rappresentano gli uomini e il loro tentativo di trovare un'invisibile risposta. Il loro intervento si fa via via più attivo, rapido e forte, ma alla fine alla domanda non viene data una risposta, e il silenzio riavvolge tutto in una indisturbata solitudine. »
( Charles Ives, intr. alla partitura di The unanswered question )
La sola esistenza di Charles Ives, nel panorama della musica del 900, fa sembrare obsoleti, e forse inutili, i quattro quinti dei compositori di "musica colta" degli ultimi trent'anni. Dopo aver ascoltato Ives c'è ben poco da aggiungere, e forse quel poco è stato detto dall'estone Arvo Part, nostro contemporaneo. In "Central Park in the dark", Ives (nel 1906 !) mette in musica rumori e canti della notte, nel Central Park di New York; in "The gong on the hook and ladder" (1911) c'è la trascrizione, in poco più di due minuti, della parata dei pompieri sulla Main Street. Lontanissimo dai futuristi e dalle macchine intonarumori, Ives fa vera musica, ed in modo particolarissimo e personale. Erano gli anni in cui Stravinskij cominciava ad affermarsi, e Schoenberg iniziava il suo percorso dodecafonico; ma Ives c'era già, e ad altissimi livelli.
Ives non assomiglia a nessuno. La sua biografia ci dice che nasce a Danbury, nel 1874, americano del New England, figlio di un maestro di banda molto colto che aveva studiato un sistema di musica alternativo a quello illustrato da Bach nel "Clavicembalo ben temperato" (cioè alternativo al sistema che è ancora alla base del nostro mondo musicale, hard rock e musica leggera compresi). Però il mestiere di Ives, per tutta la sua vita, fu quello dell'assicuratore: con la musica non avrebbe mai potuto pagarsi di che vivere. Restò marginale, ma così si poteva permettere di fare quello che voleva fare, senza le intrusioni di critici saccenti e di gente che gli diceva "sì, ma cosa significa?". Ives fece studi regolari di musica, e ha scritto sinfonie molto belle e di ascolto piacevolissimo, musica da camera, canzoni; ma preferì tirarsi da parte e guadagnarsi da vivere in un altro modo, e mi piace pensare che lo fece perché non gli piaceva l'ambiente artistico.
La "domanda senza risposta" di Ives è una preghiera, un salmo. E' un pezzo breve (sei minuti) che sembra durare all'infinito, una preghiera disperata e catartica. Catartico come Mahler: tutti i pensieri del mondo, le meditazioni, le nostre infinite domande senza risposta sono comprese in quella musica: e, alla fine del percorso, è come se si fosse contemplato il nostro io, e il male che abbiamo visto e che abbiamo commesso, e anche i nostri momenti felici; abbiamo scaricato il nostro sacco e lo possiamo rimettere sulle spalle, e riprendere a camminare. Non è musica per tutti, non è musica di primo ascolto ma non è nemmeno musica astrusa. Non ha nulla di narcisistico, non è un'elucubrazione intellettuale, è musica vera e fa parte del nostro mondo, della nostra vita. E' il libro di Giobbe messo in musica, una delle meditazioni più alte e profonde della nostra storia.

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