giovedì 31 dicembre 2009

Colori

Il rosso è il sangue, e il nero sono i pirati. Il bianco invece è l'onore, e l'azzurro è il mare, oppure il cielo: il verde invece è la terra. Lo diceva, in un'intervista di qualche anno fa, un vecchio signore inglese, discendente di pirati e fondatore di un immaginario e personale principato che ha sede su una piattaforma petrolifera.
L'intervista mi aveva molto divertito, e so che ci sono molti altri studi legati al significato dei colori; ma questi abbinamenti mi piacciono molto, ed è per questo che li ho memorizzati. Il riferimento ai colori faceva parte di un ragionamento su simboli, stemmi, insegne e bandiere, una cosa della quale ci siamo completamente dimenticati ma che una volta, ai tempi di sir Francis Drake o di Giovanni dalle Bande Nere, aveva grande importanza.
Alcuni di questi accostamenti sono facili da capire: il verde è il colore dell'islam, per esempio. Quale altro colore poteva essere scelto da gente che vive nel deserto? Il verde, in questo caso, è sicuramente associato al Paradiso; ma non è detto che sia sempre così. Nelle nostre campagne, dove il verde era invece abbondantissimo, le case avevano spesso colori tendenti al rosso e al rosa antico, che bilanciavano tutto quel verde. Oggi i colori antichi non si usano più, a Milano anche i palazzi storici sono stati sbiancati e ridotti ad un marmo funereo: anche questo è un segno dei tempi che stiamo vivendo.
Per i tempi che stiamo vivendo, è curioso vedere che un partito politico abbia scelto proprio il verde come suo simbolo: la Lombardia è ormai quasi tutta cementificata ed asfaltata, da 15 anni in qua il verde è ormai in estinzione quasi ovunque, e adesso stanno sparendo anche i giardini delle ville sul lago di Como. Si naviga sul lago, si guarda in su, verso quel cielo di Lombardia che è così bello quando è bello, e si vedono garage e villette a schiera. Quei giardini erano privati, e si sa che nelle case private ognuno fa quel che gli pare e non ci sono vincoli da rispettare: così si dice e forse dal punto di vista ideologico (cioè burocratico e notarile) è esatto - ma il panorama, a dire il vero, dovrebbe essere di tutti.
Il mio pensiero di uomo del XX secolo (pardon, XXI ) leggendo quell'articolo era però corso subito alle squadre di calcio: per esempio l'accostamento di rosso e nero (Milan e Foggia, con tanto di simboli satanici; ma sono anche colori della Chiesa) non mi aveva mai entusiasmato, ed ecco una conferma ai miei ragionamenti inconsci. L'onore, ma anche i pirati: ecco il bianco e il nero accostati, una squadra di campioni eleganti e corretti come Platini e come Scirea, ma anche di filibustieri e rudi soldati come Gentile e come Montero, o magari come Sivori che riuniva in sè sia il bianco (la classe del campione inarrivabile) che il nero (recordman nelle squalifiche, calcioni dati e presi): ecco la mia Juventus.
Ma, a dire il vero, i miei colori preferiti sono sempre stati il rosso e il blu accostati: come il Genoa, il Cagliari, il Bologna. Trovo molto belli anche il nero e il verde del Venezia, o il rosa e il nero del Palermo. Oggi va di moda (per via del marketing) cambiare sempre le maglie delle squadre di calcio, ed è un peccato. La Juve gioca con maglie blu oppure gialle o rosse o grigie, l'Inter con croce rossa su fondo bianco o con improbabili strisce orizzontali da rugbista, la Lazio abbandona i colori del Vaticano per un grigino stinto che tira al verdesino pallido, e la Roma veste tutta di nero o color senape: perché mai? Per contrabbandare qualche maglietta in più, approfittando della stupidità dei tifosi? E' un altro segno del degrado del mondo che ci circonda.
Mi chiedo cosa penseranno mai i bambini, vedendo i loro campioni giocare con colori sempre diversi, e con insegne così confuse da renderli simili agli avversari. Mi chiedo anche tante altre cose, ma il bianco e il nero abbinati continuano a piacermi, qualsiasi cosa succeda so di stare dalla parte giusta, dalla parte dei miei sentimenti più veri e più profondi; lontano da qualsiasi razionalità, ma vicino al cuore.

mercoledì 30 dicembre 2009

Non si può imparare tutto a Varese

Di Gianni Brera prima o poi bisognerà parlare: grande scrittore, alternava cose serissime a colossali stupidaggini, sempre divertendosi molto. Io gli devo molto, da Gianni Brera ho imparato tanto; anche quando scriveva o diceva cose discutibili si avvertiva sempre in lui una grande preparazione culturale.
Di questo, e di altro, parla un altro grande giornalista sportivo lombardo, Gianni Clerici. Riporto qui l'inizio di una lunga intervista comparsa sulla Stampa (penso che si possa reperire intera sul sito della "Stampa"). Penso che sia molto utile, e che dica cose importanti, concetti un tempo scontati ma che di questi tempi è bene ribadire: parlare il dialetto è bello, ma se parli solo dialetto appena esci di casa non ti capiscono più.

INTERVISTA AL CRONISTA DI TENNIS E SCRITTORE
Gianni Clerici: non chiamatemi Gran Lombardo
da "La Stampa" 6/3/2009 - di Mario Baudino
Il Vecchio Scriba ha imparato il dialetto quando era già cresciutello, e lavorava con suo padre. Gli serviva ad avere un rapporto umano con i camionisti della ditta di famiglia; gli fu molto meno utile da ufficiale degli alpini, quando si ritrovò a dialogare con commilitoni bergamaschi, e scoprì che non li capiva.
«Io parlo il milanese - racconta Gianni Clerici - ma l’ho dovuto studiare sulle poesie di Carlo Porta, perché coi miei genitori si è sempre usato l’italiano. In compenso mia nonna, gran signora, parlava solo francese oppure dialetto, e non conosceva gli spaghetti».
Ragion per cui, di fronte alla riscossa lombarda e non solo, lo scrittore che ha inventato una nuova lingua per il tennis ma ha distillato anche una sua personale via nella letteratura che Maria Corti, la grande filologa, definì «lombardese», rimane alla finestra. Attento, un po’ ironico. Incuriosito, un po’ perplesso. E non parlategli di «Gran Lombardi», lui non si sente in quel pantheon, per modestia e per convinzione.
«Gran Lombardo era Gadda, che pure è finito nel romanesco».
- Scusi, Clerici. Però c’è qualcuno della nobile schiatta vicinissimo a lei. Che ci dice di Gianni Brera?
«Brera è stato un fratello maggiore. Ma non credo che abbia avuto una vera influenza sul mio modo di scrivere. Lo sosteneva anche lui: “certe volte ci associano, diceva, ma tu sei molto diverso da me. Anche se ti chiamano il Brera junior”. Lui era partito dalla cultura francese, aveva persino tradotto, questo lo ricordano in pochi, dei deliziosi racconti di De Gobineau, il teorico delle razze. Io mi ero formato sugli inglesi».
- Diversi ma simili nello sparigliare il gioco della scrittura. Uno parlando di calcio, sport con radici persino vernacolari; l’altro di tennis, che ha una base linguistica universale, l’inglese.
«Lui ha inventato un modo nuovo di narrare il calcio, io ho fatto qualcosa di simile con il tennis. È semplice: da quando c’è la tv, non puoi più scrivere di sport raccontando i fatti. Devi cercare qualcos’altro che lo schermo non dice. I miei maestri sono stati Giorgio Bassani e Mario Soldati, che mi parlava in piemontese. Io gli rispondevo in milanese e ci si capiva alla perfezione. Ma c’è anche uno scrittore americano che amo moltissimo, sconosciuto in Italia se non per l’adattamento fatto da Garinei & Giovannini di un suo racconto, Bulli & pupe. Si chiamava Damon Runyon. Continuo a leggerlo con amore, come fosse Brera. Francis Scott Fitzgerald diceva che se non avesse scritto di sport sarebbe stato messo alla pari sia con lui sia con Hemingway. Forse era una cattiveria nei confronti di Hemingway, resta il fatto che Runyon è davvero un autore straordinario».
- E non ha niente a che fare col dialetto.
«Però ho imparato qualcosa»
- Molto lontano da Milano.
«Lontanissimo. Non si può imparare tutto a Milano, se restiamo fermi lì facciamo provincia». (...)

(http://www.lastampa.it/)

domenica 27 dicembre 2009

Cimbe?


" Scettri, dovizie, onori, bellezza, gioventù... che siete voi?...", si chiede un giovane Carlo Quinto, destinato a diventare un Grande Re di Spagna, nel terzo atto dell'Ernani di Giuseppe Verdi.
Per sua fortuna, formulata a dovere la domanda, ha pronta la risposta; e si risponde così:
" Cimbe natanti sovra il mar degli anni, cui l'onda batte d'incessanti affanni."
Cimbe? Cossa xe ste cimbe? Cosa saranno mai, codeste cimbe?
Passi per tutto il resto, oscuro come può essere oscuro solo un libretto d'opera, ma le cimbe proprio non riesco a trovarle da nessuna parte, con buona pace dell'autore dei versi, il fedele servitore di Verdi che risponde al nome di Francesco Maria Piave.
Alla fine, quando ormai non speravo più di risolvere la questione, mi viene in soccorso non un dizionario ma un programma di sala della Scala, stagione 1981-82:
" Cimbe: piccole navi, navicelle."
Ah, ecco. Meno male, che non ci dormivo la notte...

sabato 26 dicembre 2009

Il Presepio

Il presepio è un simbolo così semplice e così comprensibile che non avrei mai creduto di dover avere dei problemi nel parlarne: avrei voluto metterlo qui per Natale ma proprio non ci sono riuscito, e me ne scuso.
Quando la politica mette le mani sui simboli, soprattutto quelli che sono di tutti, è sempre triste; quando poi lo si fa in questo modo, con la rozzezza e la violenza in cui lo si è fatto in queste ultime settimane, per di più insultando il Vescovo di Milano, la tristezza diventa grande. E la tristezza non si addice al Natale, ma intanto io sono qui che guardo le mie statuine con pensieri tristi, e dubito che passi. Non passerà presto, questo è certo.
Ho ancora negli occhi quel signore, alto dirigente di CL, che in tv diceva che Gesù non è nato povero, era figlio di un artigiano e quindi di famiglia benestante. C’è del vero in questa affermazione, ma come nasce Gesù lo sappiamo tutti, in una stalla, tra povera gente, e la sua famiglia è stata respinta da tutti. Oltretutto, il tono con cui venivano dette queste affermazioni era quello di chi spiega, sorridendo ma con una certezza che non ammette dubbi, che Gesù non uno straccione qualsiasi, anzi. Mancava solo che dicesse: Gesù era brianzolo, protettore delle piccole imprese.
Lì vicino, il monaco Enzo Bianchi, priore di Bose in Piemonte, strabuzzava gli occhi e non credeva alle sue orecchie; ma è una persona educata, non si è alzato mandando a quel paese l’altro signore, ma ha spiegato quello che dovremmo davvero sapere tutti, se osiamo chiamarci Cristiani: non solo Gesù nasce povero, ma i pastori erano disprezzati, a quel tempo. I pastori vivono in mezzo alle pecore, e nel lavorare si sporcano e puzzano, proprio come le pecore. Si sa che il disprezzo per la gente che lavora è purtroppo molto antico; ma è a loro, ai pastori, che l’Angelo si rivolge per accogliere Cristo: ai pastori, e non alla Confartigianato.
La scena del presepio è presente in uno solo dei quattro Vangeli, quello di Luca.
Luca 2, 1-21 Nascita di Gesù e visita dei pastori
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nàzaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta.
Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo. C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: « Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia ». E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: « Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama ».
Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: « Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere ». Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro. Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.
testo da “La Sacra Bibbia” della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) “editio princeps 1971”
PS: Non è ancora passato un anno da quando questo Papa, Benedetto XVI, papa Ratzinger, teologo conservatore, è andato a pregare – da Cristiano - in una moschea: le spiegazioni del gesto hanno riempito pagine e pagine di giornali, ma in tv se ne è parlato poco. Il senso si può riassumere così: “Pace in terra agli uomini di buona volontà”, e gli uomini di buona volontà possono anche non essere cristiani. La stessa cosa aveva fatto il Papa precedente, Giovanni Paolo II, papa Woytila, polacco, anticomunista: e con tutte le religioni. Le foto e i filmati di questi incontri sono su internet, sui libri, basta cercarle. Il Vescovo di Milano, il lombardissimo Cardinal Tettamanzi, non ha fatto che leggere quello che c’è scritto sul Vangelo: il Cristianesimo è questo ed esiste da duemila anni, se non si vuole essere Cristiani che lo si dica apertamente.
PPS: L’affresco della Natività è di Bernardino Luini.

venerdì 25 dicembre 2009

Cristalli

- Siamo come cristalli, - spiegò il ragazzo con bontà - un niente ci incrina. E ci diamo botte tremende l'un l'altro.
(Achille Campanile, da "Manuale di conversazione", il racconto "Solo per l'eternità")

giovedì 24 dicembre 2009

La forza dell'amore

Anch'io sono un autore, anzi un Autore con la maiuscola: ho qui anche un bel soggetto per uno sceneggiato tv, e ne approfitto per raccontarlo. Eccolo qua.
Un uomo apre, su una piazzuola della statale, un banco di fruttivendolo. Gli affari vanno piuttosto bene, ma ecco che arrivano i vigili e chiedono informazioni al nostro fruttivendolo (come potremmo chiamarlo? Silvano? Ma sì, Silvano), che ovviamente non ha la licenza per trasmettere (pardon, per vendere). I vigili gli contestano molte e cospicue violazioni della legge, e minacciano di chiudergli il banchetto; ma Silvano è amico del sindaco, che richiama i vigili all'ordine. Così facendo, il banchetto di frutta e verdura prospera, e Silvano diventa sempre più ricco e potente, fino ad avere una catena di negozi e di supermercati. Né valgono le indagini della Finanza: il Sindaco sistema anche quelli. Ma, un brutto giorno, il buon Sindaco cade in disgrazia e muore; a Silvano non resta che rimboccarsi le maniche e scendere in campo, fondando una lista civica. I sudditi felici lo votano e Silvano ora è il nuovo Sindaco... Una saga che si può riempire di personaggi e di particolari, per molte puntate.
Fondamentale e spettacolare, per esempio, la scena nella prima puntata nella quale Silvano insulta i vigili gridandogli "fascisti" (o, magari, vista la bassa estrazione culturale di Silvano: “cattocomunisti!”) e i vigili stanno per arrestarlo, come farebbero con ogni cittadino comune in quelle circostanze, ma vengono fermati dall'arrivo degli elicotteri del Sindaco. Eccetera: si può andare avanti per molte puntate, magari anche per venti o venticinque anni. Il titolo è come una canzone di Enzo Jannacci, “La forza dell’amore” (ovvero: “Iersera pioveva”).
Buona visione, e ovviamente sappiate che è tutto rigorosamente frutto della mia fantasia, e che cose del genere in un paese civile e di grande storia democratica come l'Italia non sono mai accadute e mai potrebbero accadere.

mercoledì 23 dicembre 2009

Brave new world

L'alba diventa un'ora
che stenti a riconoscere nel grigio
di ogni altra cosa.
L'alba diventa l'ora
del negro che pulisce il grande mostro
ancora addormentato - rari occhi
gli si aprono confusi, qui e là -
dalle immondizie.
L'alba diventa un'ora inesistente
e maledetta: esiste l'orologio.
L'alba diventa l'ora degli uccelli
superstiti.
(Danilo DOLCI - da "Il limone lunare", 1968)


("Brave new world" è un romanzo di Aldous Huxley, molto adatto a questa alba di XXI secolo)

lunedì 21 dicembre 2009

Tuta mimetica

La tuta mimetica è fatta per nascondersi nel bosco. Una tuta mimetica indossata a Milano, davanti al Duomo, è l’esatto contrario: serve a farsi vedere. Se la indossa un militare, pazienza; se la indossa un cittadino qualsiasi (o magari una cittadina, perché fa moda) ottiene l’effetto di un evidenziatore: è come diventare luminosi e fosforescenti, o circolare con un cartello indicatore sopra la testa – e questo almeno fino al giorno in cui tutti circoleremo in tuta mimetica (spero il più tardi possibile).
Un effetto simile lo sta facendo un altro abito “di servizio” che ormai è diventato d’uso comune, questo sì fosforescente e riflettente o catarifrangente: la giacca a vento impermeabile con le strisce antinebbia “per farsi vedere di notte”, che in pieno giorno e in città non serve a niente, ma ormai fa tendenza e guai a non metterla.
Intendiamoci, non c’è niente di male: sono indumenti comodi e utili, ma è come un volersi mettere in uniforme, tutti uguali; e l’uniforme è parente stretta della livrea, quella che indossavano i servi. Ricordo sempre che, in fabbrica, era normale prendere un po’ in giro quelli che circolavano in paese con gli abiti da lavoro o con la giacca a vento della ditta. Gli si dava del tirchio, o gli si chiedeva: “ma hai così voglia di tornare a lavorare, che non riesci a staccarti dalla tuta?”. La risposta era semplice, spesso con tono di scusa: “Ma no, stavo facendo dei lavori in casa, ero vestito così e sono uscito a prendere la vernice che mi mancava per finire la parete che sto imbiancando”.
Adesso invece sono tutti fieri dell’uniforme, anche le giovani crocerossine escono di casa con i catarifrangenti, e le ronde fortemente volute dalla Lega Bossiana sono tutte in giacca a vento anti-mimetica.
Non ho un giudizio da dare, o meglio ho il mio: che vale quel che vale, il tempo di leggerlo e dimenticarsene (non ho mai amato né le mode né le uniformi, cerco da sempre di vestirmi nel modo più anonimo possibile: ma forse è solo perché sono alto un metro e novanta, penso che sia più che altro una forma di difesa naturale, del tutto indipendente dalla mia parte razionale). Però la moda della tuta mimetica ha riferimenti precisi, i film di Rambo e il mito dei lagunari. Quando ci si mette la tuta mimetica, magari con gli anfibi (se siamo al 31 di luglio pazienza), un bel bazooka fra le mani completerebbe perfettamente il look. Cerco di non pensarlo mai, soprattutto davanti a dei militari in servizio in Piazza del Duomo, ma di questi tempi dimenticarsi delle uniformi è davvero dura.
PS: Il disegno è una copertina del mensile “Linus”, che usciva negli anni ’80. Uno dei maggiori filosofi novecenteschi, lo Snupius, si sta chiedendo: “ma come si fa a perdersi dentro un albero?”

giovedì 17 dicembre 2009

Piazza Fontana, 1911

Il 12 dicembre 1969, dal telegiornale, vengo a sapere che un bambino della mia età aveva perso una gamba in un attentato: era la strage di Piazza Fontana, a Milano, ed era la prima volta che succedeva qualcosa di così grave in Italia. Molti anni dopo, almeno trenta, mi sono trovato a leggere "L'agente segreto", un romanzo di Conrad.
Joseph Conrad scrisse "L'agente segreto" nel 1911. E' una data che mi fa impressione, in quest'Italia di Piazza Fontana, ma anche dell'Italicus, di Piazza della Loggia e di tanti altri "misteri irrisolti": 1911, quasi cent'anni fa.
In questo libro Conrad abbandona i racconti di mare, le navi che non salpano per mancanza di vento, il primo incarico che tarda ad arrivare, le donne forti e appassionate, il Borneo, l'Indonesia e perfino il sole dei tropici. Siamo a Londra, tra le nebbie e i colori grigi della vita quotidiana; il signor Verloc non è più giovane ma si è appena sposato con una ragazza quieta dedita alla casa, e insieme hanno un negozio. Nel negozio non entra nessuno, i clienti sono una rarità eppure mister Verloc, la sua signora e il fratello di lei, un giovane quieto in cura per qualche problema psichico, se la passano benino. Il che non è compatibile con l'andamento delle loro entrate, quindi c'è sotto qualcosa: infatti il quieto e grigio Mr. Verloc è un informatore della polizia, infiltrato in un gruppo di anarchici; e da molti anni manda regolari rapporti che gli vengono regolarmente pagati. Ovviamente nessuno sa niente di questa sua attività, e anche la giovane moglie ne è completamente all'oscuro. Tutto sembra procedere bene, insomma: ma un giorno, in pieno giorno, Verloc viene inaspettatamente convocato dai suoi superiori.

(...) " Ho qui alcuni dei suoi rapporti ", disse il burocrate con una voce inaspettatamente dolce e stanca, premendo con forza l'indice sui fogli. Fece una pausa; e Mr Verloc, che aveva riconosciuto benissimo la propria scrittura, attese in silenzio quasi trattenendo il fiato. (...) " Ciò di cui c'è bisogno ", disse l'uomo delle carte, " è che si verifichi qualcosa di molto preciso che li stimoli a vigilare di più. Questo rientra nella sua area di competenza, non è così? "
Mr Verloc non rispose in alcun modo, se non con un sospiro, che si lasciò sfuggire senza volere, tanto che cercò immediatamente di dare alla sua faccia un'espressione allegra. Il funzionario sbatté gli occhi, come per effetto della luce fioca della stanza, ma aveva un'espressione dubbiosa. Ripeté vagamente:
" La vigilanza della polizia... e la severità dei giudici. L' indulgenza in genere dei procedimenti giudiziari, qui, e la completa mancanza di qualsiasi misura repressiva sono uno scandalo per l'Europa. Ciò che è auspicabile in questo momento è l'accentuazione dello scontento: del fermento che certo esiste... "
" Certo, certo ", l'interruppe Mr Verloc con una deferente, profonda voce di basso da tribuno, così diversa dal
tono con cui aveva parlato sinora che il suo interlocutore rimase profondamente stupito. " Esiste ed è un grande pericolo. I miei rapporti degli ultimi dodici mesi lo mostrano abbastanza chiaramente. "
" I suoi rapporti degli ultimi dodici mesi ", cominciò il consigliere di stato Wurmt col suo tono gentile e distaccato, " sono stati da me letti. Non sono riuscito a capire perché lei si sia scomodato a scriverli. "
Per un po' regnò un silenzio triste. Sembrava che Mr Verloc si fosse ingoiato la lingua, mentre l'altro fissava i fogli sulla scrivania. Finalmente li scostò con una leggera spinta.
" Lo stato di cose che lei vi illustra si può dare per scontato che sia tale, essendo la condizione prima del suo impiego. Ciò che le si richiede al momento non è scrivere, ma porre in essere un fatto chiaro, significativo, oserei quasi dire un fatto allarmante. "
" E' superfluo dire che tutti i miei sforzi si indirizzeranno a tal fine ", disse Mr Verloc, modulando con convinzione il suo roco tono colloquiale. Ma la sensazione di essere scrutato dall'altro lato della scrivania da quegli occhi che sbattevano dietro il cieco riflesso degli occhialini lo sconcertava. Si fermò di colpo con un gesto di assoluta devozione. L'utile e operoso, per quanto oscuro membro dell'Ambasciata aveva l'aria di essere rimasto colpito da un'idea improvvisa.
" Lei è molto corpulento ", disse.
Questa osservazione, in effetti di natura psicologica, e proposta con discrezione ed esitazione da un burocrate piú avvezzo a penne e calamai che ai requisiti della vita attiva, ferì Mr Verloc come un rilievo personale oltremodo maleducato. Fece un passo indietro.
" Che cosa? Che cosa si è compiaciuto di dire? "
Il cancelliere d'Ambasciata, incaricato di condurre questo colloquio, sembrò ritenere che fosse troppo per lui.
"Credo", disse,"che sarebbe meglio se vedesse Mr Vladimir. Sì, decisamente penso che lei dovrebbe vedere Mr Vladimir. Abbia la bontà di attendere qui ", aggiunse, e usci a piccoli passi.
(...) " Se soltanto avesse la bontà di consultare i miei rapporti ", rimbombò la sua grande voce di basso da tribuno, " vedrà che appena tre mesi fa ho lanciato un avvertimento in occasione della visita a Parigi del granduca Romualdo, che è stato poi trasmesso per telegrafo alla polizia francese, e... "
" Ma lasci perdere, è meglio! " sbottò Mr Vladimir, aggrottando la fronte con una smorfia. " La polizia francese non sapeva che farsene del suo avvertimento. Non ruggisca a quel modo. Che diavolo le passa per la testa? (...) Bene, lasci allora che le parli chiaro. La voce non ci basta. Non sappiamo che farcene della sua voce. Non vogliamo una voce. Vogliamo fatti. Fatti eclatanti, accidenti a lei ", aggiunse, prendendosi una libertà feroce, proprio in faccia a Mr Verloc. (...) Lei si fa passare per un agent provocateur. Il mestiere di un agent provocateur è per l'appunto quello di provocare. A giudicare dal suo stato di servizio lei non ha fatto niente negli ultimi tre anni per guadagnarsi lo stipendio. "
" Niente! " esclamò Verloc, senza muovere un muscolo, e senza alzare gli occhi, ma con una nota di sincerità nella voce. " Più volte ho prevenuto quello che sarebbe potuto diventare... "
" C'è un proverbio in questo paese che dice che prevenire è meglio che curare ", lo interruppe Mr Vladimir, buttandosi sulla poltrona. " In linea generale, è un proverbio stupido. Non c'è fine alla prevenzione. Ma è tipico. In questo paese detestano i tagli netti. Non sia troppo inglese. E in questo caso particolare non sia assurdo. Il male è già qui. Non ci serve la prevenzione: ci serve una cura. " (...)
" Mi permetta di osservare ", disse Verloc, " che se sono venuto qui è perché sono stato convocato con una lettera perentoria. Sono stato qui solo due volte negli ultimi undici anni, e certamente mai alle undici di mattina. Non è molto prudente farmi venire così. C'è anche la possibilità che qualcuno mi veda. E per me non sarebbe uno scherzo. "
Vladimir scrollò le spalle.
" Vanificherebbe la mia utilità ", continuò l'altro, infiammandosi.
" Problemi suoi ", mormorò Mr Vladimir, con dolce brutalità. " Quando cesserà di essere utile faremo a meno dei suoi servizi. Sì. Proprio così. Un taglio netto. Lei verrà... " Mr Vladimir fece una pausa aggrottando la fronte; non gli veniva un'espressione abbastanza idiomatica, ma di colpo si illuminò con un ghigno che gli scoprì i denti, meravigliosamente bianchi. " Lei verrà sbattuto fuori ", disse, con ferocia. (...) " Avremmo in mente di somministrare un bel tonico alla Conferenza di Milano ", disse come se niente fosse. " Le discussioni che si stanno tenendo sulla repressione della criminalità politica non portano da nessuna parte. L'Inghilterra continua a rimandare. Quant'è ridicolo questo paese, con il suo sentimentale rispetto della libertà individuale. (...) La cosa che gli ci vorrebbe adesso sarebbe un bello spavento. Psicologicamente, questo è il momento per mettere al lavoro i suoi amici. L'ho fatta venire per illustrarle la mia idea. "
E Mr. Vladimir illustrò la sua idea, calandola dall'alto sprezzante, infinitamente superiore, ma rivelando allo stesso tempo una tale ignoranza circa gli scopi, il modo di pensare e gli effettivi metodi dell'ambiente rivoluzionario da riempire di costernazione il silenzioso Verloc. Confondeva cause ed effetti più del lecito; i propagandisti più illustri con focosi bombaroli; dava per scontata, una qualche organizzazione dove non poteva esistere nella natura delle cose; a volte parlava del partito socialrivoluzionario come di un esercito perfettamente disciplinato in cui la parola dei capi era incontrastata, e subito dopo come se fosse la più sgangherata accozzaglia di briganti disperati che mai abbia trovato rifugio fra le gole delle montagne. Solo una volta Mr Verloc apri la bocca per protestare, ma il levarsi di una grande mano bianca e ben proporzionata lo bloccò. Ben presto era troppo stupefatto anche solo per osare protestare. Stette lì ad ascoltare, troppo spaventato per muoversi, immobile come se fosse profondamente interessato.
" Una serie di attentati ", continuò calmo Mr Vladimir, " perpetrati qui, in questo paese, non solo progettati qui: non basterebbe, non sarebbe abbastanza per smuoverli. I suoi amici potrebbero dar fuoco a metà Continente senza influenzare l'opinione pubblica di qui a favore di una legislazione repressiva mondiale. Qui non guardano oltre il loro orticello. "
Mr Verloc si schiarì la gola, ma non se la senti e non disse nulla.
" Non c'è bisogno che questi attentati siano troppo sanguinari ", prosegui Mr Vladimir, con l'aria di tenere una
conferenza scientifica, " basta che siano sufficientemente eclatanti, efficaci. Mettiamo che siano rivolti contro gli edifici, per esempio. Qual è il feticcio del momento, che tutta la borghesia riconosce, eh, Mr Verloc? "
Mr Verloc allargò le braccia limitandosi a scrollare appena le spalle.
" Lei è troppo pigro per pensare ", fu il commento di Mr Vladimir a quel gesto. " Stia bene a sentire quanto sto per dirle. Il feticcio del momento non è né la monarchia né la religione. Quindi palazzi reali e chiese vanno lasciati perdere. Lei capisce quello che voglio dire, Mr Verloc? " (...) Non c'è giornale che non abbia già delle frasi belle e pronte per commentare avvenimenti del genere. lo sto per illustrarle la filosofia del bombarolo dal mio punto di vista; dal punto di vista che lei ha fatto finta di servire per gli ultimi dodici anni. Cercherò di farmi capire anche da lei. La sensibilità della classe contro cui vi scagliate fa presto a intorpidirsi. La proprietà appare loro come qualcosa di indistruttibile, non potete aspettarvi che i loro sentimenti, siano essi di paura o di pietà, durino troppo a lungo. (...) E poi io sono un uomo civilizzato. Non mi sogno nemmeno di ordinarle di organizzare una carneficina, anche se mi potrei aspettare da essa dei risultati ottimali. Non è da una carneficina che mi aspetto i risultati che auspico. L'assassinio fa parte della nostra vita. E' quasi un'istituzione. Il gesto dimostrativo deve essere rivolto conto il sapere, la scienza, ma non una scienza qualsiasi. L'attentato deve avere la sconvolgente insensatezza di una bestemmia gratuita. Essendo le bombe i vostri mezzi di espressione, sarebbe una cosa veramente emblematica se si potesse lanciare una bomba dentro la matematica pura, cosa, questa impossibile. Ho cercato di istruirla; le ho esposto la somma filosofia della sua utilità suggerendole degli argomenti che potrebbero essere utili. L'applicazione pratica dei miei insegnamenti interessa prima di tutti lei. Sin da quando l'ho convocata per questo colloquio ho anche pensato all'aspetto pratico della questione. Che ne dice se ci provassimo con l'astronomia?" Era da un po' che l'immobilità di Mr Verloc accanto alla poltrona assomigliava a un collasso comatoso, una sorta di insensibilità interrotta da leggeri sussulti convulsi, quali si possono osservare nel cane di casa in preda a un incubo, sdraiato sul tappetino davanti al caminetto. E fu con un impacciato ringhio canino che ripeté la parola: "Astronomia..." (...)
" Può andare ", disse Vladimir. " Bisogna provocare un attentato dinamitardo, a Greenwich. Le do un mese. Al momento i lavori della Conferenza sono sospesi. Se non succederà qualcosa qui, in questo paese, prima che torni a riunirsi, il suo rapporto con noi si interrompe. "
Cambiò poi di nuovo tono con disinvolta versatilità.
" Ci pensi alla mia filosofia, Mr... Mr... Verloc ", disse, con superiorità sprezzante, indicando la porta. " Ci provi con il primo meridiano. Lei non conosce i ceti medi come li conosco io. La loro sensibilità è intorpidita. Il primo meridiano. Non c'è niente di meglio e, direi, di più facile. "
Si era alzato e, con le sottili labbra sensibili contratte nervosamente, seguì nello specchio sopra il caminetto Mr Verloc che usciva all'indietro dalla stanza con passo pesante, tenendo in mano cappello e bastone. La porta si richiuse.
(Joseph Conrad, L'agente segreto, capitolo secondo)

mercoledì 16 dicembre 2009

Il Crocifisso

Ogni tanto qualcuno, di solito uno che viene da fuori, di un’altra religione, lo fa notare: “è un cadavere, nudo, su una croce”. E ci sono reazioni sdegnate, scandali, urla e discussioni insensate.
Eppure è proprio così, basterebbe guardare: un uomo nudo, appena coperto da un panno; ed è morto, su una croce, esposto al pubblico ludibrio. Forse ci abbiamo fatto caso da bambini, ma ormai ci siamo così abituati che non lo vediamo nemmeno più.
Eppure tutti dovremmo essere andati al catechismo, e tutti – se ci diciamo Cristiani - dovremmo sapere come rispondere, ed essere orgogliosi di quel cadavere nudo, di quel Dio che è morto per noi: il Crocifisso è uno dei simboli principali della nostra religione. E l’essere nudo sta a significare miseria, il non avere più niente: meno che essere mendicanti. Forse è il caso di ricordare, en passant, che la nudità come simbolo unicamente sessuale è una cosa abbastanza recente, per secoli nudo è stato sinonimo di squallido, di sporco, di sconfitta.
Se avessimo letto i Vangeli (cosa della quale dubito fortemente) conosceremmo tutta la storia: ma non sto qui a ricapitolarla, il Vangelo è un libro di poche pagine, chi non sa o non ricorda può anche andare a leggerselo.
Gesù ci dice due cose fondamentali: di amare il nostro prossimo (lo dice nell’Ultima Cena) e che la nostra vita non finisce qui. Il primo messaggio è chiarissimo ma anche di una difficoltà estrema (amare il nostro prossimo? anche quell’antipatico là? anche chi mi ha fatto del male?); il secondo messaggio è molto meno comprensibile – almeno finché siamo qui su questo mondo.
E’ sconvolgente l’episodio di San Tommaso: che non crede ai propri occhi. Come può essere questo il mio amico, se il mio amico è morto? E Gesù gli prende la mano e gli fa toccare le piaghe, quelle che lo avevano ridotto cadavere: e da amico gli dice “sì, sono proprio io; ma con la morte non finisce tutto.”
Un altro argomento che lascia perplessi i non cristiani è quello del Dio che muore. Come possiamo adorare un Dio che muore? Per molte religioni, un Dio che muore è addirittura ridicolo.
Anche qui, un cristiano dovrebbe saper rispondere: ma ormai dubito che il Cristianesimo interessi davvero agli italiani, men che meno a certi lombardi e a certi veneti. Pochi giorni fa il Cardinale di Milano è stato insultato per avere detto che Cristo è solidarietà e accoglienza; gli hanno risposto – a parte le parole offensive, sulle quali vorrei sorvolare (ma non so se è possibile sorvolare, torneranno presto) – che loro preferiscono il presepio. E questa è una risposta interessante: noi tutti amiamo il presepio, che è la vita che nasce, Gesù Bambino, e in fin dei conti non amiamo molto quel povero uomo senza niente addosso, vilipeso e stracciato, che teniamo appeso nelle nostre case e nelle nostre scuole.
Molti preferirebbero che nel Vangelo ci fosse scritto come precetto di pestare i negri e i mendicanti, ma così non è - meglio comunque non dirlo troppo in giro, stringiamoci intorno al cardinal Tettamanzi e preghiamo affinché l’ondata cattiva passi senza portare troppi danni.

martedì 15 dicembre 2009

Falce e Martello


Falce e martello, contadini e operai: simboli del lavoro. Simboli del passato, mi si fa notare: ottocenteschi o d’inizio novecento. Capisco benissimo che chi viene da un Paese dell’Est possa non gradirne la vista, ma questo è un simbolo tra i più belli.
Bisognerebbe finalmente imparare a guardare chi c’è, come persona fisica, dietro ai simboli: chi porta avanti le idee o dice di farlo. E questa è una cosa che andrebbe sempre detta, fin dalla prima infanzia: diffidare delle singole persone, confrontare sempre le idee con la strada che si sta facendo. Perfino dietro al Crocifisso si sono nascosti (e si nascondono tutt’oggi) persone spregevoli – ma questo è un discorso lungo che mi porterebbe fuori strada.
Falce e martello sono il simbolo della fatica, la fatica fisica: è per questo che appaiono così fuori moda. Lavorare costava grande fatica e resistenza fisica: oggi andiamo in palestra e giochiamo con la playstation, è normale che questo simbolo ci appaia vecchio e incomprensibile.
Il martello si usa per il bricolage, la falce è proprio estinta: anche per pochi centimetri quadrati di prato ormai si usa la motofalciatrice, vuoi mettere? Oppure si asfalta tutto, si mettono gli autobloccanti, si usa il diserbante: l’uomo del Duemila in questo modo è convinto di risolvere tutto.
E io, che la falce non l’ho mai usata, penso invece a mio nonno: che era alto e magro, ma aveva dei muscoli eccezionali, così duri che parevano di legno. Forte come una quercia, si diceva una volta; e mio nonno era già anziano al tempo di questo ricordo. Dimenticatevi i culturisti: quelli dei contadini erano muscoli veri, non roba gonfiata. Mio nonno era sempre gentile e sorridente, una persona mite (somigliava un po’ a Stan Laurel, ma solo nelle foto dove Stanlio era serio), ma in casa si raccontava ancora che era stato capace di fronteggiare un toro fuggito dalla stalla, almeno due volte, e di riportarlo alla calma.
La falce piccola, il falcetto del simbolo, a dire il vero qualche volta l’ho usata: ma non sapevo come fare, era tutt’altro che facile e richiedeva molta pratica. La falce grande, quella per segare il frumento, evoca ricordi maestosi; ed era anche molto pericolosa, richiedeva grande abilità manuale.
In anni lontani ho visto da vicino lo spettacolo (perché era davvero uno spettacolo) dell’affilare le falci con la cote: esercizio pericolosissimo, che andava ripetuto più volte nel corso della giornata. E l’atto del falciare, così come quello del seminare, ha molto a che vedere con la nascita della musica: è un atto ritmico, quasi una danza lenta. Se si semina male, andando fuori tempo, non in maniera ordinata, il frumento crescerà male; se si falcia male, il lavoro risulterà più difficile e più duro.
Le misure di lunghezza e di superficie dell’Ottocento, spesso antichissime, sono state tutte soppiantate dal metro e dai suoi derivati. Avevano nomi che oggi appaiono strani, perfino ridicoli: pertiche, biolche; e variavano sensibilmente da un posto all’altro, anche a poca distanza. Al di là della comodità dell’uso del sistema metrico, va ricordato che non erano semplici misure lineari o di superficie, ma tenevano conto anche del tempo e delle difficoltà da superare. Fare cento metri in salita non è la stessa cosa che fare cento metri in piano; allo stesso modo, arare un campo di terra morbida non è la stessa cosa che arare un campo di terra dura e sassosa. La superficie è la stessa, ma il lavoro richiede più tempo: di tutte queste cose si teneva conto. Il sistema metrico va benissimo per i geometri, che devono solo sbancare e costruire: per il contadino, quello che usa la falce, forse era davvero meglio pensare in biolche.
Da mio nonno, a Parma, si parlava in termini di parsón e di piana: una “piana” era la porzione di terreno che si poteva lavorare in un giorno, e il “parsón” era una suddivisione della piana, il tempo (e la distanza) necessari per andare avanti e indietro, come la navetta nel telaio, e ripartire per fare un’altra porzione (forse l’etimologia è questa?) della “piana”.
Mio zio, suo figlio, classe 1927, mi diceva sempre (anche lui sorridendo) “voi siete nati nella bambagia, queste cose qui non le capite”. E aveva ragione. Lui faceva il muratore, ed era fiero del suo mestiere; al cantiere gli affidavano sempre le cose difficili, quelle da fare con precisione. Gli archi, le volte, le piastrelle. Il lavoro manuale costa molta fatica, ma costruire un muro a regola d’arte, o falciare perfettamente un prato, sono cose che danno soddisfazione.
A noi, di tutto questo, è arrivato poco o niente. La mia generazione è davvero cresciuta nella bambagia (cioè nel cotone, sul morbido), ma quelle successive sono generazioni di plastica e di mondi virtuali, da videogioco o da omini del Lego, dove per la fatica fisica non c’è posto – a meno di andare in palestra per le arti marziali.
Per tutto il resto, c’è un libro bellissimo, breve e di facile lettura, che si chiama “La fattoria degli animali”(autore George Orwell, testimone oculare). In URSS è andata così: ma io, figlio di operai, ho potuto studiare e fare la vita del signore. Nell’Ottocento, quando nacque e si diffuse il simbolo della falce e martello, non mi sarebbe andata così bene: e per sapere come mi sarebbe andata si potrebbe provare a leggere un libro qualsiasi di Dickens, basta anche “Oliver Twist”.
N.B.: potrei essere stato impreciso nei termini che ho usato. Innanzitutto per la pronuncia: il dialetto non è una lingua scritta, e il parmigiano (pramsàn) è davvero difficile da rendere con l’italiano. La esse di “parsón” è un suono intermedio tra esse e zeta, e le A di “piana” sono diverse da quelle dell’italiano. Anche tutto il resto andrebbe verificato, però il concetto è quello: le antiche misure di superficie tenevano conto anche del tempo, e della fatica fisica.

domenica 13 dicembre 2009

Posalaquaglia

Elenchi di cose utili, raccolti qua e là:
1) Nomi e cognomi di personaggi interpretati da Totò nei suoi film: Scannagatti, Posalaquaglia, La Trippa, Caccavallo, Lo Truzzo, Lo Bùggero, La Pezza, Lomacchio, Spillone, Scorcelletti, Stonatelli, Lumaconi, Nicolete Alvaro de Partenopeis, Gagliardo della Forcoletta.
2) I sette nani di Disney, in quattro lingue: Doc, Grumpy, Dopey, Sleepy, Sneezy, Bashful, Happy / Prof, Grincheux, Simplet, Dormeur, Atchoum, Timide, Joyeux / Chef, Brummbar, Pimpl, Schlafmutze, Hatschi, Seppl, Happy / Dotto, Brontolo, Cucciolo, Pisolo, Eolo, Mammolo, Gongolo.
3) Mussolini secondo Carlo Emilio Gadda, dai libri e dalle lettere: Buce, appestato e appestatore, rincoglionito, Minchione Ottimo Massimo, Maldito Merdonio, Grande Tamburone del Nulla. (aggiungo, non ricordo di chi: "ben ito")

sabato 12 dicembre 2009

Trappole

L’uomo si piazza a destra, bene a destra, e spara subito le sue cartucce: «Sono contrario ai minareti e alle moschee.»
E adesso tocca a me. Cosa devo dire? Nel giochino dei dibattiti tv, io adesso – come uomo di sinistra – dovrei difendere i minareti e le moschee e parlare in difesa dei musulmani. Ma cosa ne so? Mica sono musulmano, so giusto qualche cosa che ho letto qua e là. Perché mai io, cristiano battezzato e cresimato, dovrei parlare a nome dei musulmani? Perché mai io, laico di sinistra, dovrei mettermi a parlare di una religione che non conosco?

E’ una delle tante trappole tese continuamente nei dibattiti tv, e che si ripercuotono nella nostra vita privata, nei rapporti con i colleghi sul lavoro, o a scuola, o magari in famiglia. Tendiamo a sopravvalutare gli elettori: alle elezioni, queste trappole funzionano perfettamente e si è visto in più di un’occasione.
Perché mai uno di sinistra, o di centro, dovrebbe parlare a nome dell’Islam? In nome di che cosa, santo Cielo? Al massimo, si può esprimere un parere; ma se c’è da parlare di questioni religiose, io che cosa ne so? E invece il giochino è sempre quello, la trappola è sempre pronta a scattare: a destra l'Ordine, la Tradizione, la Patria; a sinistra il caos, la confusione, l'Islam. E' ridicolo, ma gira sempre così. Tra l’altro, conosco anch’io qualche musulmano: di solito hanno idee di destra e della sinistra non ne vogliono proprio sapere.

Per fortuna in tv non ci devo andare, almeno questa fortuna ce l’ho: tra l’altro io non so gridare, alzare la voce mi riesce difficile, diventerei subito afono – contro gli interruttori di destra (a destra c’è una scuola apposta per interrompere e portare il dibattito in vacca) mi ci troverei malissimo.
Se fossi lì, però, una cosa da dire ce l’avrei: che mi stanno benissimo i referendum sui minareti, anzi li allargherei subito a tutto il resto. Una discoteca sotto casa? Referendum. Una strada? Referendum! Un grattacielo davanti a casa mia? Referendum! La linea TAV deve passare di qui? Referendum!
Perché limitarsi ai minareti e alle moschee? Facciamo che i cittadini dicano la loro su tutte le cose che possono disturbare, ma proprio tutte tutte. (Dice che non si può? O bella, e perché mai?)
A proposito: Venezia è piena di costruzioni in stile turco, eppure è bellissima... (Meglio un minareto o la nuova Fiera di Milano?)

venerdì 11 dicembre 2009

« ul Giüseppp »

A pag. 192 di “La cognizione del dolore” salta fuori, inopinatamente, una Beppina.
Carlo Emilio Gadda non sa darsene ragione.
Non si spiega come nella Nea Keltiké potesse darsi il vezzeggiativo Beppina, quand'è arcinoto che la Keltiké in parola conosce soltanto delle Peppine, dei Peppini, delle Peppe, dei Pepp, delle Pine, dei Pini, dei Pinin e dei Giüseppp, tutti e tutte con la labiale dura il p, oltreché beninteso la Peppatència che è poi nient'altro che la regina di picche. Si tratta probabilmente di un equivoco o di una insufficiente documentazione filologica da parte dell'A. Altra circostanza stranissima e su cui la critica filologica e forse anche la storica e perfin la estetica saranno chiamate a recar lume è il fatto che nel Sudamerica non vengono funghi: né il Boletus appetitoso, né il soporifero, né i vari e temibili Micetes.
(Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, edizione Einaudi 1984, nota scritta da Gadda a pagina 192)


Detto subito che la “Nea Keltiké” è uno scherzo (si tratta della Brianza e del Lecchese, la zona intorno a Longone al Segrino dove c’era la casa dei Gadda), non so quanto i non milanesi-lecchesi-comaschi possano capire di Gadda, ed è un peccato. Non so neanche quanto ne possano capire i milanesi-lecchesi-comaschi sotto i quarant’anni, perchè si tratta di un mondo ormai quasi completamente scomparso. Io ho avuto la fortuna di conoscere persone e luoghi ancora molto simili a quelli descritti da Gadda, ma ormai penso che la mia sia l’ultima generazione che può arrivare a capire anche i minimi dettagli di questo libro: Gadda ha la capacità, rara e riservata solo ai grandissimi, di “evocare” fisicamente persone, posti, perfino gli odori e i colori, con una sola parola o con una breve frase. Oserei dire: perfino il tatto, ruvidità, morbidezza, l’umidità del muschio in un angolo di un muro...
“La cognizione del dolore” è ambientato in un falso Sudamerica dove Gadda si diverte a reinventare i luoghi a lui familiari: dopo un po’ diventa un romanzo tragico, ma io leggendolo mi sono fatto risate clamorose – soprattutto nelle prime pagine - e penso che sia questa la giusta chiave di lettura.
Gadda, ingegnere, visse a lungo in Argentina per motivi di lavoro, e da qui viene lo “spagnolesco” meraviglioso sovrapposto alle persone e ai luoghi della Lombardia. Visse anche a Roma, e ascoltò con immenso piacere anche il romanesco e tutti i dialetti che poteva ascoltare: da qui nasce “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, forse il più famoso dei suoi libri.
PS: il “mio” Gadda è l’edizione Einaudi pre-fininvest. Ci tengo a sottolinearlo: a quei tempi Einaudi era sinonimo di livello alto ed altissimo, comperare un libro Einaudi era andare sul sicuro, a quel tempo nessuno cercava di fregarti con gli spot. Magari il libro Einaudi era un libro poco riuscito, mai comunque una fregatura.

giovedì 10 dicembre 2009

L'omino di burro

Pinocchio arriva al Paese dei Balocchi e trova un gran casino:
(...) Nelle strade, un'allegria, un chiasso, uno strillìo da levare di cervello! Branchi di monelli dappertutto: chi giocava alle noci, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a moscacieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa. Chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare con le mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l'ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. (...)

Tutto questo succedeva al tempo di Carlo Collodi (1826-1890); molto probabilmente, oggi Pinocchio arrivando nel Paese dei Balocchi troverebbe il silenzio assoluto: tutti i bambini starebbero sui videogiochi, e con le cuffie del walkman (i-pod e mp3) ben piantate sugli orecchi.

mercoledì 9 dicembre 2009

Natascia Rostova all'opera

«Ma poi che cos’è che ci trovano nell’opera lirica?»
In questi giorni, quando se ne parla perché c’è l’apertura di stagione alla Scala, se lo domandano in molti; e allora riporto qui una descrizione fedelissima, per di più d’autore.
Ho sistematicamente tagliato tutte le parti romantiche, un po’ perché erano molto lunghe ma soprattutto perché queste cose qui non succedono sempre, anzi mi viene il dubbio che succedano solo quando c’è Natascia Rostova (sedicenne all’epoca dei fatti). Il resto no, il resto è quasi routine (ma io andavo sempre in loggione, posti in piedi: si stava un po’ scomodi ma si ascolta meglio che in tutto il resto del teatro, almeno alla Scala; e poi – dettaglio non secondario – fuori dai palchi e dalla platea ci si può vestire in modo da star bene, da persone normali, senza cravatta e senza code nella giacca).

Leone Tolstoj, Guerra e Pace: volume secondo parte quinta, estratti dai capitoli VIII-IX-X
Quella sera i Rostòv si recarono all'opera, per la quale Mària Dmìtrievna aveva procurato i biglietti.
Natascia non ne aveva voglia, ma non era possibile rifiutare la cortesia di Mària Dmìtrievna, destinata a lei sola. Quando, già pronta, si recò in salotto ad aspettare suo padre e, dopo essersi guardata in un grande specchio, vide di essere bella, molto bella, si sentì ancora più triste, ma di una tristezza fatta di dolcezza e di amore. (...)
Capitata in una fila di vetture, stridendo con le ruote sulla neve, la carrozza dei Rostòv si avvicinò lentamente all'ingresso del teatro. Natascia e Sonia balzarono rapide a terra, sollevando i loro vestiti; il conte scese, sostenuto dai servitori, e tutte e tre, fra signore e cavalieri che entravano e maschere che vendevano il programma, s'avviarono lungo il corridoio dei palchi di prim'ordine. Dagli usci semiaperti già si sentiva l'eco della musica. (...)
Risuonarono intanto gli ultimi accordi del preludio e la bacchetta del direttore d'orchestra diede un colpo secco. In platea i signori in ritardo raggiunsero i loro posti e il sipario si alzò.
Non appena il sipario fu alzato, nei palchi e in platea si fece un gran silenzio e tutti (...) concentrarono la propria attenzione con avida curiosità sulla scena. E anche Natascia si mise a guardare.
Il centro era fatto di un assito piano, ai lati la scena era chiusa da cartoni dipinti che rappresentavano alberi, nel fondo era una tela tesa su un telaio. Nel mezzo della scena sedevano alcun fanciulle vestite di un corpetto rosso e di una gonnella bianca. Un'altra ragazza, molto grassa, che indossava un vestito bianco, stava seduta in disparte su una panchina bassa; dietro la panchina era incollato un cartone verde. Cantavano tutte insieme.
Quando ebbero finito la loro canzone, la ragazza col vestito bianco venne avanti verso la buca del suggeritore, e mentre vi si veniva accostando, un uomo che portava un attillato paio di calzoni di seta sulle grosse gambe e che aveva una piuma sul berretto e un pugnale alla cintura cominciò a cantare e ad allargare le braccia. Dapprima cantò l'uomo con i calzoni attillati, solo, poi cantò anche la ragazza. Dopo di che tutt'e due tacquero, la musica suonò alcune battute e l'uomo prese a palpare fra le dita una mano della ragazza, in evidente attesa della battuta per incominciare a cantare insieme.
Finito che ebbero il duetto, tutto il teatro cominciò a battere le mani e a gridare, mentre l'uomo e la donna sulla scena, i quali raffiguravano due innamorati, si profusero in inchini sorridendo e allargando le braccia. Tutto questo a Natascia, dopo la vita in campagna e nella seria disposizione d'animo in cui si trovava, appariva strano e stupefacente.
Non le riusciva di seguire l'andamento delle vicende dell'opera e nemmeno di ascoltarne la musica: vedeva soltanto i cartoni dipinti, gli uomini e le donne stranamente camuffati che stranamente si muovevano e parlavano e cantavano sulla scena sotto una luce abbagliante; sapeva bene cosa tutto ciò dovesse rappresentare, ma l'insieme era così leziosamente falso, così privo di naturalezza che in certi momenti si vergognava per gli attori e in certi altri aveva voglia di riderne.
Guardava intorno a sé le facce degli spettatori, cercava su di esse l'espressione della perplessità e della canzonatura che erano dentro di lei, ma tutti i visi erano attenti a quel che accadeva sulla scena ed esprimevano, come pareva a Natascia, un'ammirazione simulata. "Forse così dev'essere! » pensava Natascia. (...)
A poco a poco e senza rendersene conto, Natascia cominciava ad entrare in uno stato d'ebbrezza, non più provato da lungo tempo. Non ricordava chi fosse, non sapeva dove si trovasse e cosa stesse accadendo dinanzi a lei. Guardava e pensava, e le idee più strane le balenavano all'improvviso e senza nesso nella mente. Ora le veniva l'idea di fare un salto sul proscenio e di cantare l'aria che eseguiva la prima donna, ora la prendeva la voglia di colpire con il ventaglio un vecchietto seduto non lontano da lei, ora di chinarsi verso Hélène e di farle il solletico. (...) Finì il primo atto, in platea tutti si alzarono, si confusero insieme, cominciarono a muoversi e a uscire.
(...) Al secondo atto i quadri della scena rappresentavano monumenti e un buco nella tela raffigurava la luna; i paralumi della ribalta erano stati tolti; tromboni e contrabbassi presero a suonare in chiave di basso e, da destra e da sinistra, uscirono molti uomini avvolti in mantelli neri. Quegli uomini si misero a gesticolare, tenendo in mano qualcosa come dei pugnali; poi accorsero certi altri uomini e si misero a trascinare fuori la giovane donna che prima era vestita di bianco e che adesso portava una veste celeste.
Ma non la trascinarono fuori subito, si trattennero un pezzo a cantare con lei, e poi finalmente la portarono fuori e allora, dietro le quinte, furono battuti tre colpi su qualcosa di metallico e tutti s'inginocchiarono e intonarono una preghiera. Più volte tutte queste azioni furono interrotte dalle grida entusiastiche degli spettatori. (...)
Nel terzo atto la scena rappresentava la sala di un palazzo, nella quale ardevano numerose candele e sulle cui pareti erano appesi molti ritratti di cavalieri con la barbetta. Nel mezzo stavano in piedi due personaggi: probabilmente un re e una regina. Il re agitò la mano destra e, preso evidentemente dalla timidezza, cantò male qualche cosa e si sedette su un trono cremisi. La ragazza, che all'inizio era vestita di bianco, poi di celeste, e che indossava ora soltanto la camicia e aveva i capelli sciolti, stava accanto al trono.
Cantava con voce dolente, volgendosi alla regina, ma il re fece un gesto severo con la mano e dai due lati della scena uscirono uomini con le gambe nude e donne con la gambe nude e si misero a ballare tutti insieme. Poi i violini si misero a suonare molto finemente un motivo brioso e una delle ragazze, che aveva le gambe nude e grosse e le braccia magre, staccandosi dagli altri, sparì dietro le quinte, si aggiustò il corsetto, ritornò in scena e cominciò a saltare e a battere rapidamente un piede contro l'altro. In platea scoppiarono applausi e grida di «brava!»
Poi uno degli uomini si ritirò in un angolo. Nell'orchestra, i timpani e le trombe alzarono il tono e quell'uomo con le gambe nude si mise a saltare da solo molto in alto, e a muovere rapidamente i piedi in passi brevissimi. (Quell'uomo era Duport che riscuoteva, per quell'arte, sessantamila rubli l'anno.) In platea, nei palchi, nel loggione tutti gli spettatori si diedero a battere le mani e a gridare a perdifiato: l'uomo si fermò e rivolse sorrisi e inchini da tutte le parti.
Poi ballarono anche altri, uomini e donne, tutti con le gambe nude, poi di nuovo il re gridò qualcosa seguendo il ritmo della musica e tutti si misero a cantare. Ma tutto a un tratto si sollevò un uragano: in orchestra si udirono scale cromatiche e accordi in settima minore. Tutti fuggirono e di nuovo trascinarono uno dei presenti dietro le quinte.
Il sipario calò. Ancora una volta un gran rumore e un terribile frastuono si levarono fra gli spettatori, i quali, con le facce estasiate, gridavano: "Duport! Duport! "
Anche a Natascia la cosa non pareva più strana. Sorridendo gioiosamente si guardava intorno con piacere. (...)
Nel quarto atto, un diavolo cantò gesticolando fino a che una tavola non gli fu tolta di sotto ed egli disparve in una botola. Natascia dell'intero quarto atto non vide altro: qualche cosa la teneva agitata e la tormentava, e la causa di quell'agitazione e di quella pena era Kuràghin, che ella involontariamente seguiva con gli occhi. (...)
(Leone Tolstoj, Guerra e Pace, volume secondo parte quinta, dai capitoli VIII-IX-X)
(trad. Laura Simoni Malavasi, ed. BUR)

Tolstoj non ci dice che opera era. Io propenderei per Meyerbeer, “Robert le diable”: per la presenza dei balletti, per la lunghezza, e per il diavolaccio nel quarto atto. Sarebbe un anacronismo, perché l’opera di Meyerbeer è del 1831 e “Guerra e Pace” è ambientato a inizio Ottocento, al tempo di Napoleone; ma Tolstoj , vissuto fra il 1828 e il 1910, sta sicuramente raccontando qualcosa che ha visto lui, e non Natascia.

martedì 8 dicembre 2009

Amleto non ha dubbi

Nel 1952 Carlo Emilio Gadda va a vedere l’Amleto di Shakespeare e ne scrive per una rivista che si chiamava “Il Giovedì”. La sua analisi fa piazza pulita di tutti i luoghi comuni, soprattutto quello del “dubbio amletico”: Amleto sa cosa deve fare, fin dall’inizio. A bloccarlo sono le possibili conseguenze della sua azione: nel momento in cui dovesse agire, si potrebbe arrivare alla catastrofe. E così accadrà.
Un’analisi illuminante, ma purtroppo il “dubbio amletico” continua a campeggiare, anche nel 2010: dalla pigrizia e dai luoghi comuni è difficile difendersi. Viene da pensare che in pochi abbiano letto l’Amleto, e che di quei pochi quasi nessuno ne abbia capito il senso. E’ per questo che io non finirò mai di ringraziare Gadda, ovunque egli sia in questo momento.
Ho dovuto fare numerosi tagli, relativi soprattutto al rapporto con Ofelia, a Polonio, e alla recensione vera e propria: in quell’Amleto recitavano Vittorio Gassmann , Anna Proclemer, Elena Zareschi, Luigi Squarzina, Gianni Cavalieri, Andrea Bosic, Luigi Vannucchi, Mario Feliciani, Carlo D’Angelo.


«AMLETO AL TEATRO VALLE», di Carlo Emilio Gadda, 1952
(dal volume “Un radiodramma per modo di dire”, raccolta di scritti di Carlo Emilio Gadda, edizioni “Il Saggiatore”1982)
(...) Amleto ha avuto interpreti, critici, traduttori, lodatori, falsificatori innumerevoli: qualche denigratore, anche: ogni epoca del gusto, della sensibilità, del costume, ogni trentennio od ogni decennio del pensiero (o della moda) vi ha cercato e vi ha trovato quello che voleva, quello che piaceva di cercarvi, di trovarvi.
I successivi atteggiamenti della sensibilità e della critica hanno dato alle scene i molti Amleti che la storia del teatro ricorda: e le schematizzazioni e le sforzature non mancano. Quasi ogni volta il personaggio era solo nella sua grandezza, tragicamente monologante o perfino delirante (poiché c'è stata anche una " pazzia " di Amleto) di fronte alle schiere dei mediocri, degli informi, da cui appena emergeva il pallido fiore preraffaellita della Ofelia.
Certo l'anima del principe di Danimarca giganteggia sopra la normale statura degli umani, la sua consapevolezza morale si manifesta - nel giudizio spietatamente crudo ed esatto ond'egli investe, come di un fascio di luce repentina, il verminaio della corte e della politica (direi che in Amleto è percepibile anche la componente " antimachiavellica " dell'anglicismo del puritanesimo e della riforma). La sua condotta tutta imperniata sulla necessità morale dell'azione, che sola può riscattare il nostro destino e motivarlo di fronte alla vergogna e alla colpa, affratella Amleto ai romantici del periodo alto; in Amleto essi hanno avuto il loro uomo.
In lui non si contorce il dubbio, chi mai ha inventato questa scemenza? Si palesa invece un dibattito: il ritardante, lacerante contrasto fra le promissioni della vita consueta, del mondo com'è, degli usi civili, ossia regali, e diplomatici, della menzogna acquiescente, del patto ignominioso datore di salute fisica e di pace fisica, e il senso invece dell'incarico e del conseguente adempimento cui siamo astretti dalle ragioni profonde del " cuore ", cioè dall'imperio etico d'una ragione sopraindividuale: la coscienza etica dell'eternità.
Il dubbio, semmai, non è altro che lo scrupolo procedurale (di timbro anglosassone): e lo scrupolo procedurale fa parte delle acquisizioni etiche dello spirito umano. Amleto, prima di agire, angosciato di dover agire, vuole ottenere la prova di ciò che ha oscuramente intuito dai fatti: oscena celerità delle seconde nozze di sua madre, loro carattere incestuoso (vietato, o almeno riprovato, dalle leggi o dalla consuetudine il matrimonio fra cognati: si pensi alla grana di Enrico VIII).
E poi quel presagio o quel sospetto già circolante nella coscienza collettiva, che è teatralmente reso con le apparizioni del re padre. Lo spettro è, in certo modo, il simbolo o almeno il coagulo di una nozione storica non documentata, ma solo registrata nella verisimiglianza, nella probabilità, nel risentimento profondo dei cuori.
Donde avviene che le parole " prova " e " azione " sono quelle che più ritornano sulle labbra di Amleto, che fanno di lui senza dubbio l'Elettra-Oreste dei romantici, quando per eroe romantico si debba intendere l'uomo invasato dalla missione ricostitutrice (d'una realtà morale del mondo), l'uomo chiamato, predestinato ad agire moralmente. Egli incontra e supera i contrasti e le more che la debilità del corpo, l'istinto fisico della conservazione, l'ambiente, la diplomazia, l'etichetta,
i rispetti umani, le tradizionali osservanze, la tentazione del compromesso, eccetera eccetera, frappongono a una disperata volontà.
Si noti che la missione di Amleto, come quella di Oreste - (da ciò le deriva il carattere e il significato tragico) - è missione forzatamente negativa; punisce e cancella il male e l'obbrobrio, riaprendo al futuro la sua possibilità, la sua verginità. Amleto non arriva alla speranza, alla riedificazione del regno: la quale si colloca al di là della punizione, cioè della così chiamata
" vendetta ". Amleto sente il carattere annichilitore della propria azione, sa di dover cadere lui stesso, nell'atto di operare il cauterio estremo del male, della vergogna e della colpa.
Ed è questa, forse, la ragione oscura e profonda per cui egli respinge da sé quella che lo ama riamata, volendo ridonarle, con la libertà, la salvezza. (...)
Il teatro ci rende consapevoli del bene e del male detergendo dal suo belletto il volto della menzogna, smascherando la vita. Non è questo il solo senso comportato dall'inserzione, tutta shakespeariana e diabolica, della scena nella scena. (...)
" AMLETO " AL TEATRO VALLE di Carlo Emilio Gadda, 1952
(dal volume “Un radiodramma per modo di dire”, raccolta di scritti di Carlo Emilio Gadda, edizioni “Il Saggiatore”1982)

lunedì 7 dicembre 2009

Otello non è geloso

I luoghi comuni sono la cosa più comune da trovare nei commenti su internet. Sono indice di pigrizia, e molto spesso di ignoranza: ci caschiamo un po' tutti, ed è bene stare attenti. Per esempio, di recente ho letto uno storico del Medioevo (forse Franco Cardini, o Jacques Legoff) che ricordava: i roghi delle streghe non sono medievali, sono del Rinascimento. Ed è vero, i roghi sono concentrati tra il '500 e il '600: quante volte questo errore l'ho ripetuto anch'io...
Perciò sono sempre contento quando trovo qualcuno che mi fa pensare e che mi costringe a riflettere, su quei luoghi comuni. Questo è uno dei primi esempi che mi è capitato di leggere, e me lo porto dietro da più di trent'anni.
(Beh, non è che lì per lì, quando ti smontano un "luogo comune", le nostre reazioni siano delle migliori... Spesso ci siamo affezionati, ai nostri luoghi comuni).


Fjodor Dostoevskij, “I Fratelli Karamazov” (parte terza, libro VII, cap.3)
(...) La gelosia! « Otello non é un uomo geloso, è un uomo fiducioso », osservò Puskin, e questa osservazione testimonia da sola la straordinaria profondità di mente del nostro grande poeta.
Nel caso di Otello si tratta semplicemente di questo, che la sua anima si è spezzata e la sua visione del mondo si è offuscata perché il suo ideale é crollato. Ma Otello non si nasconde, non sta di guardia, non sta a spiare: egli ha fiducia. Anzi, fu necessario guidarlo, spingerlo, aizzarlo con sforzi enormi, solo perché arrivasse a dubitare del tradimento.
Il vero geloso non è così. Non ci si può neppure immaginare a quali vergogne e a quali bassezze morali è capace di adattarsi, senza nessun rimorso, l'uomo geloso. E non è che siano tutte anime basse e sporche. Al contrario, con un cuore elevato, con un amore puro e pieno di abnegazione, un uomo può lo stesso nascondersi sotto i tavoli, comprare la gente più abietta, spiare, origliare e adattarsi a tutto il sudiciume di una posizione simile.
Otello non si sarebbe mai potuto rassegnare a un tradimento, parlo di rassegnarsi non di perdonare, benché la sua anima fosse buona e innocente come quella di un bambino. Non così il vero geloso: è difficile immaginare a che cosa possano adattarsi e rassegnarsi certi uomini gelosi, che cosa possano perdonare!
Gli uomini gelosi perdonano prima degli altri, e questo lo sanno tutte le donne. Un uomo geloso è capace, per esempio, di perdonare straordinariamente presto (dopo una scenata, s'intende) un tradimento ormai quasi provato, di perdonare baci e abbracci visti con i propri occhi, se, per esempio, può convincersi in qualche modo nello stesso tempo che è stata « l'ultima volta» e che il suo rivale da quel momento sparirà, che se ne andrà in capo al mondo, oppure che lui stesso porterà via la sua donna, in qualche posto dove quel terribile rivale non arriverà mai. Si capisce che la riconciliazione dura solo un'ora, perché, anche se quel rivale sparisse per davvero, il giorno dopo lui se ne inventerebbe un altro, uno nuovo, e sarebbe geloso di quest'altro. Vien voglia di domandarsi che cosa rappresenti un amore al quale bisogna fare la guardia continuamente, e quanto valga questo amore se sono necessari tanti sforzi per trattenerlo. Ma è proprio questo che gli uomini gelosi non capiranno mai; eppure fra loro ci sono anche persone di cuore elevato, è la verità.
Un'altra cosa interessante è che questi stessi uomini, quando stanno in qualche bugigattolo a
spiare e a origliare, per quanto con il loro « cuore elevato » comprendano bene tutta la vergogna nella quale sono scivolati volontariamente, pure, almeno in quel momento, finché stanno in quel bugigattolo, non provano nessun rimorso.
Mitja alla vista di Grùshenka dimenticava la sua gelosia, per un momento diventava un uomo nobile e fiducioso, si disprezzava anzi per i suoi brutti pensieri. Ma ciò significava soltanto che il suo amore per quella donna era molto più elevato di quanto egli stesso supponesse (...)
Fiodor Dostoevskij, “I Fratelli Karamazov” (parte terza, libro VII, cap.3)
(ed. Sansoni 1969, traduzione a cura di Ettore Lo Gatto)

sabato 5 dicembre 2009

Ogni cosa ha il suo prezzo

You might have a lot to say.
There might be a price to pay.
Just beware...
(it’s just a warning,
beware...)
Robert Wyatt, “Beware” (da “Cuckooland” , 2003)

Potresti avere qualcosa da dire, potrebbe esserci un prezzo da pagare: sta’ attento...
(è solo un avvertimento: sta’ attento...)

Wyatt è inglese ma vive in Italia da molti anni. Potrebbe avere capito qualcosa che a noi sfugge, ma forse questa è una regola che vale dappertutto: c’è sempre un prezzo da pagare, magari non grave, magari soltanto un’amicizia che si rompe o un amore che va in frantumi (just beware...).

giovedì 3 dicembre 2009

Canzoni d'amore

1.
Tu son vignùa da me, de svolo,
e gero duto verto :
t'hè dao la benvignùa nel gno deserto,
un fonte d'aqua, e pùo me solo.
T'hè fato festa,
pregandote de fa na sosta :
t'ha verto l'ale lesta,
svolando a la to costa.
T'ha bùo paura
che te tagiesso l'ale,
che te fésso un gran male,
co' la fiaba che dura,
quéla de sior Intento :
ma gero solo in vogia de parole,
de 'vete a colo e scolta' l'ole,
che favela col vento.
(Biagio Marin )

(sei venuta da me, in volo, ed ero tutto aperto; ti ho detto benvenuta nel mio deserto, una fonte d'acqua e poi me solo...ma hai avuto paura che ti tagliassi le ali, che ti facessi male. Ma io ero solo in voglia di parole, di averti vicina e di ascoltare le onde che parlano con il vento)
(la "fiaba del sor Intento" è questa: "la storia del sor Intento, che ora ti racconto, che mai si disbriga, che te la conti o che te la diga?" - mio padre la raccontava come "la storia de san Vincenso") (mio padre era veneto, Biagio Marin era di Grado, vicino a Trieste - ma Trieste xe Trieste e Grado xe Grado, come tengono a precisare da quelle parti).

2.
Per ani, dei so basi in smogio,
'vevo perso la nota mia del duto
su un mare lisso come l'ogio :
pùo, ella m'ha lassao sul suto
d'un dosso grando
in meso a le brulére,
e gera desolae le sere,
per l'omo solo, messo al bando.
No riveva ne barca ne una vela,
per tome via e portame in salvo,
el dosso gera griso e 'l gera calvo,
dopo sparìa la gno putéla.
(Biagio Marin )

(no, questa non la traduco: per chi vuole, visto che è arrivato fin qui, c'è in libreria l'edizione completa delle poesie di Biagio Marin, per di più in edizione economica)

martedì 1 dicembre 2009

I dì xe contài

I dì xe contài, contàe xe le ore,
e dopo se more, lisiér, liberài.
Sorte anche del sol,
de la so eterna festa,
che pur finisse, e ninte resta,
e niente duol.
El sol, i firmaminti, el mar e i vinti,
musica de la vita
che pareva infinita.
Ili no sa tramonto,
eternamente i luse e dura;
me vago a l'ombra scura
de Dio e in elo sconto.
(Biagio Marin, 1891-1985 )

Nascondersi nell'ombra scura di Dio: c'è bisogno di traduzione per il resto? Spero di no, a volte basta un po' d'impegno. I "vinti" sono i venti, "ili" è terza persona plurale, e "xe", voce del verbo essere, si pronuncia come "zé" in portoghese, o come la esse in "alisei".
(Biagio Marin era di Grado, dialetto di area veneziana.)

domenica 29 novembre 2009

DNA - Nozioni di base

« Il DNA si presenta in lunghissimi filamenti e forma i famosi cromosomi, che sono i segmenti di DNA presenti all’interno del nucleo di ogni cellula. I cromosomi sono uguali in tutte le cellule di un individuo e sono caratteristici di quell’individuo particolare. (...) Le unità che compongono i cromosomi sono in numero elevatissimo ma possono essere solo di 4 tipi: A, G, C e T.
Le lettere si usano per comodità, e sono le iniziali di quattro composti chimici semplici e ben noti: Adenina, Guanina, Citosina, Timina. A e G sono della classe di sostanze chiamate “purine”, cui appartengono ad esempio anche la caffeina e l’acido urico; C e T sono delle “pirimidine”, molecole un po’ più piccole: la vitamina B1 è un derivato della pirimidina. Hanno tutte un comportamento chimico di alcali, o basi (l’opposto di acidi) e vengono perciò chiamate anche semplicemente “basi”. Ogni base è attaccata a una molecola di zucchero, il Desossiribosio (dal quale viene la D di DNA). La struttura generale di un filamento di DNA è molto semplice: lo scheletro è formato da un’alternanza regolare di acido fosforico e di un desossiribosio. Indicando con il simbolo P l’acido fosforico e con D lo zucchero, lo scheletro del DNA è quindi: ...-P-D-P -D-P-D-P-D-... Ad ogni zucchero D è attaccata una base, A C G o T, in una certa sequenza, che è diversa e caratteristica di ogni segmento di DNA (...)»
Ho preso questa spiegazione da un bel libro del genetista Luca Cavalli Sforza (“Chi siamo – Storia della diversità umana”, capitolo quarto), che è anche un ottimo divulgatore scientifico.
Il che vuol dire che questo brano è stato scritto nella maniera più semplice e chiara possibile. Nonostante tutto, voi non ci avete capito niente lo stesso? Beh, è normale se non avete studiato almeno un po’ di chimica: che è quello che capita alla stragrande maggioranza degli italiani.
Eppure queste sono le basi per poter iniziare un qualsiasi discorso sulle cellule staminali, per esempio, o sugli OGM, o su un altro degli argomenti che tanto turbano le nostre coscienze di questi tempi. Mancando queste elementari conoscenze di chimica (si studiano a 16-17 anni, alle superiori), è praticamente impossibile affrontare l’argomento.
Beh, succede: si può parlare di Hiroshima anche senza avere nozioni di fisica nucleare, per intenderci, o di fede senza avere nozioni di teologia. Lo facciamo tutti i giorni, si va un po’ a tentoni ma ci può stare. La cosa che però mi sconvolge è questa: che io ho studiato poco e male, trent’anni fa, queste nozioni – poco e male non per colpa degli insegnanti ma per colpa mia, a dirla tutta. Ma queste quattro cose che ho appreso e poi anche messo in pratica, cioè conoscere la tavola periodica di Mendeleev e sapere che cos’è un amminoacido, mi mettono in posizione di grande competenza rispetto al 95% delle persone che incontro o che sento discutere in tv o sui giornali o in Parlamento di questi argomenti.
E’ una cosa che davvero mi sgomenta: io competente in qualcosa? Penso a quel ragazzo che ero trent’anni fa, ringrazio almeno un po’ il destino di avermi fatto prendere il diploma di perito chimico invece di andare al classico come la Moratti, ma non è che la cosa mi consoli molto e mi piacerebbe tanto avere, almeno in Parlamento a stendere le leggi, qualche persona capace di leggere quello che ha scritto Cavalli Sforza senza farsi venire il mal di testa. So già che non è possibile, ma pazienza: il mondo andrà avanti lo stesso, ma nella direzione che vogliono le multinazionali e i nipoti del dottor Stranamore (nel senso del film di Stanley Kubrick: questo è un fotogramma del finale, che una volta era famoso e oggi dovrebbe esserlo ancora di più, con tutto questo parlare di nucleare...).

sabato 28 novembre 2009

Moplen

Nel 1954 il chimico ligure Giulio Natta riesce ad ottenere dei polimeri con struttura geometrica prestabilita: questa scoperta lo porterà a vincere il Premio Nobel nel 1963, insieme al tedesco Karl Ziegler.
E’ proprio in questo periodo, i primi anni 60, che Gino Bramieri con la sua faccia simpatica riempie le nostre serate televisive con la pubblicità del Moplen e con uno slogan azzeccato: “Ma signora guardi ben / che sia fatto di Moplen!”. Da allora, secchi catini e mastelli non saranno più fatti di legno o di metallo, ma di plastica: è questo uno dei risultati della scoperta di Natta.
E’ anche l’epoca, a metà degli anni ’60, nella quale fanno la loro comparsa i sacchi neri della spazzatura: anch’essi di plastica. Prima, non ce n’era mai stato bisogno.
Non so come facessero nelle città, ma qui da noi i rifiuti di cucina si buttavano nella rudéra, cioè nell’orto, in una buca, a far concime; carta e legno si bruciavano nella stufa, per riscaldare la casa; e i rifiuti metallici erano destinati allo straccivendolo, che li rivendeva all’industria. Insomma, non si buttava via nulla e non c’era bisogno di discariche.
Poi è arrivato il moplen (polipropilene isotattico), e tutte le altre materie plastiche oggi di uso comune: Polivinilcloruro (PVC), polistirolo, polietilentereftalato (PET)... Materie perfette per l’uso, ma anche indistruttibili. Molecole che in natura non c’erano e non ci sarebbero mai state senza l’intervento umano.
Non che prima la plastica non ci fosse: c’era la bakelite, per esempio, con la quale si costruivano le manopole delle radio, i portalampade, e altri piccoli oggetti. Ma la bakelite (o baccalite, dal nome del chimico danese Baekeland) era una resina informe, creta da modellare o poco più. C'era anche il nylon, un'altra pasta informe che però si poteva filare come la seta, e altre fibre tessili.
La scoperta di Natta però permise di disporre le molecole a piacere, secondo l’uso che ne vogliamo fare. E’ come inanellare gli atomi in una collana o in una catenella, di lunghezza teoricamente infinita: da qui la definizione di “polimero isotattico”. Dapprima l’operazione si fa col propilene, che è una piccola molecola gassosa: tante molecoline di propilene messe in fila ad una ad una, proprio come la catenella, in fila come le perline di una collanina, ed è il moplen di Bramieri. Poi via via si fanno cose sempre più complesse, quelle che vediamo tutti i giorni e alle quali ormai abbiamo fatto l’abitudine.
Sull’enciclopedia, Giulio Natta ha tre righe molto smilze. Eppure, dovrebbe essere famoso come Garibaldi: ha influito più lui sulla nostra vita, sicuramente non volendolo, di tanti capi di Stato e filosofi e leader religiosi che si ripromettevano di cambiare il mondo...

venerdì 27 novembre 2009

Denaturato

Un paio d’anni fa ero lì con una bella mora (una signora milanese un po’ più giovane di me) e mi sono ritrovato a parlare per un quarto d’ora dell’alcool denaturato.
Insomma, io pensavo che fosse qualcosa di banale, invece lei non ne sapeva niente: “Ho sempre usato l’alcool denaturato ma di queste cose non ne sapevo niente”, mi ha detto con gran sorpresa.
E dunque, considerato che forse non è un concetto così scontato, ecco quello che so.
Alcool denaturato è un alcool etilico a cui sono stati aggiunti un colorante e una sostanza odorosa, che dà cattivo sapore nel caso lo si voglia bere. L’alcool etilico è lo stesso che si usa per dolci e liquori; di per sè costa poco, ma sull’alcool etilico puro c’è una tassa da pagare, ben evidenziata dall’apposita strisciolina di carta sul tappo di grappa, whisky, brandy. Invece l’alcool etilico denaturato si usa per le pulizie di casa e per disinfettare: per evitare che lo si ricicli in liquori e ciliegine sotto spirito lo si rende sgradevole al gusto e all’odorato.
Il trucco è questo: le sostanze sgradevoli, l’odore e tutto il resto (hanno nomi complicati che non sto qui a trascrivere, ma li dovreste trovare sull’etichetta), sono studiate in modo da avere lo stesso punto di ebollizione dell’alcool etilico, così che non si possano allontanare distillando. E’ ancora possibile rendere puro l’alcool denaturato, ma farlo verrebbe a costare uno sproposito. Insomma, non conviene: ecco perché sull’alcool denaturato non c’è l’etichettina che troviamo sui liquori.
A mio parere, sull’etichetta dell’alcool denaturato manca un’informazione essenziale: il contenuto d’acqua. Infatti, può capitare che due bottiglie apparentemente uguali contengano una percentuale diversa di alcool: non è un gran problema perché l’alcool denaturato costa poco, ma è comunque un’informazione che viene a mancare – più acqua c’è, meno l’alcool sgrassa e disinfetta.

giovedì 26 novembre 2009

Esploratori

- L'ultima volta che giocai al bigliardo, caro Allais, fu nella Nuova Galles del Sud.
- Ah!
- E sopra un tappeto il cui lato piú corto non misurava meno di un miglio marino e mezzo (2 km. e 786 m.).
- Accipicchia!
Il mio stupore, devo confessarlo, si mescolava a un pochino d'incredulità.
- Perfettamente - fece Cap, con la sua voce piú tranquilla.
E quando quel diavolo d'un uomo mi ebbe esposta la faccenda dovetti confessare che la mostruosità del suo dire era soltanto apparente.
- Nel 1888 (1) Cap, incaricato dall'istituto libero di Bougival di un'esplorazione geologica nella Nuova Galles del Sud, s'avventurò nelle profondità di una larga vallata nella quale la mano dell'uomo non aveva mai messo piede.
Nessuna vegetazione lussureggiava in quei luoghi per l’eccellente ragione che la terra vegetale era sostituita da un formidabile giacimento di malachite. Cap allora, con la consueta genialità, pensò di trarre profitto da quella ricchezza mineralogica. (...)
(1) Com'è lontano tutto ciò!

L’avventura prosegue: chi vuole conoscerne il seguito lo trova qui:
Alphonse Allais, “Il capitano Cap” (capitolo XIX, corrispondente alla pag.116 dell’edizione Dall’Oglio 1963)

Incubi e profezie ( n.1 )

Incubi e profezie, n.1 – Io sono la leggenda
Ci sono letture, o film, che ti rimangono dentro. Non sono necessariamente capolavori: anzi, spesso è vero l'opposto. I grandi capolavori ti rimangono dentro come una visione completa, con grandi personaggi e grandi temi, in positivo o in negativo. Per esempio, uno dei grandi interrogativi del Novecento, il terrorismo, è già quasi tutto nei Demoni di Dostoevskij. Ma io sto parlando di libri più piccoli, meno noti, o noti solo a cultori di genere, o che hanno avuto grande notorietà ma sono ormai - come dire? - passati di moda e magari è diventato difficile trovarli.
Il primo di questi miei incubi ricorrenti è un libro che è sempre stato reperibile, per fortuna; lo si trova tra negli scaffali dedicati alla fantascienza, ha avuto molte versione cinematografiche (quasi tutte brutte, meglio evitarle), ed è un piccolo capolavoro che nell'originale si chiama "I am the legend", opera di Richard Matheson.
Vi si immagina un mondo dove un misterioso morbo ha trasformato via via gli uomini in vampiri; il protagonista, rimasto isolato, li deve combattere duramente di notte mentre di giorno va in giro a cercare altri superstiti sani; e ne approfitta per eliminare i mostri che dormono. Ma, alla fine del libro, dovrà arrendersi alla realtà: il mondo si è rovesciato, ed ora è lui, il nostro eroe, ad essere in minoranza. Anzi, ad essere indicato come mostro e a incutere terrore: come prima capitava ai vampiri, che ora sono la normalità. "Adesso, sono io la leggenda…" sono le sue ultime parole; e così Matheson chiude il libro.
Un mondo rovesciato, dove il male e l'orrore sono la normalità; dove tutto quello di buono che ti è stato insegnato è stato messo in discussione. Un mondo che abbiamo cominciato a intravedere, in questi ultimi anni, con il revisionismo fascista per esempio. Potrebbe essere solo una mia suggestione, ma (ahimè) i ministri (ministri!) che si dichiarano orgogliosamente fascisti e razzisti non sono una mia invenzione: "La realtà è quella cosa che non se ne va quando tu smetti di pensarci", diceva Philip K. Dick. Speriamo che passi presto, che l'incubo finisca e che si possa tornare a dormire tranquilli…

Incubi e profezie ( n.2 )

Incubi e profezie, n.2 – La visione del Grande Lama
"Orizzonte perduto" è un gran bel film: risale al 1937 e fu girato da Frank Capra. E' tratto da un romanzo di James Hilton, e vi si racconta del favoloso mondo di Shangri-La, una valle felice nascosta tra le alte cime di un Tibet immaginario. In quel mondo isolato si perdono, o vogliono perdersi, alcuni occidentali; non è esattamente un monastero buddista, ma si tratta di una sintesi tra cristianesimo e buddismo, forse immaginata da Hilton pensando agli avventurosi gesuiti del 1600, come padre Matteo Ricci (che, per inciso, per il suo sincretismo fu quasi scomunicato da Roma: e così si perse un'occasione storica per favorire il cristianesimo in Cina, ma pazienza – ormai è acqua passata).
"Orizzonte perduto" è rimasto famoso anche perché vi si parla dell'eterna giovinezza, della vita che si prolunga quasi all'infinito, come se il tempo rallentasse: un segreto dei monaci, o forse l'aria della valle. Ma il protagonista del libro, Robert Conway, ha dei dubbi e li espone al Grande Lama: perché allungare la vita oltre i suoi limiti?
Conway, militare e addetto diplomatico inglese, è rimasto seriamente colpito dalla sua esperienza nella Grande Guerra. Non che abbia sofferto particolarmente (ci tiene a precisarlo), ma dopo (dopo quello che ha visto e vissuto) è stato come se avesse perso tutte le sue passioni e le sue energie, e da allora il suo desiderio principale è di essere lasciato in pace, e di vivere in pace: un atteggiamento che ha provocato solo danni alla sua carriera militare e diplomatica. Il Grande Lama si aspettava l'obiezione, ed è pronto a rispondere: ma prima di darvi la sua risposta vorrei fare soltanto notare un particolare, e cioè che il libro uscì nel 1933. Non un anno qualsiasi, come ben sappiamo.
- Ma cosa contano contro il ferro e l'acciaio le opinioni degli uomini ragionevoli? Mi creda, quella visione si avvererà. Per questo, mio caro, io sono qui; per questo lei è qui; e per questo preghiamo di sopravvivere alla catastrofe definitiva che da ogni parte ci minaccia. (…) Poi, figliolo, quando i forti si saranno divorati a vicenda, allora forse si compirà finalmente l'etica cristiana, e i deboli avranno in eredità la terra. ( capitolo 8)
- Sarà una tempesta, figlio mio, di cui il mondo non ha mai visto l'eguale. Non ci sarà salvezza con le armi, né aiuto dalle autorità, né risposta nella scienza. Infurierà finché ogni fiore di cultura non verrà calpestato e tutte le cose umane non verranno ridotte a un caos enorme. (capitolo 10)
- (…) Ma l'età oscura che verrà coprirà di un unico drappo funebre il mondo intero; non ci saranno né rifugi né santuari, se non quelli troppo segreti o troppo umili per essere scoperti o notati. E Shangri-La può sperare di essere uno di questi. Il pilota che porterà i suoi carichi di morte verso le grandi città non passerà sopra di noi; e anche se per caso dovesse farlo non sprecherà una bomba per noi. (capitolo 10)
Shangri-La è il mondo dove è preservata la bellezza, e dove la pace è l'unico vero valore. Questo è il suo segreto; e forse esiste davvero, da qualche parte, magari dentro di noi. Fuori di Shangri-La, appena al di fuori della Valle Incantata, anche le cose belle si deteriorano, invecchiano, non vengono più considerate come importanti. E forse questa è la vera importanza di questo libro, al di là della terribile profezia, scritta ben prima che si potesse pensare all'atomica e purtroppo ancora attuale.

Incubi e profezie ( n.3 )

Incubi e profezie, n.3 – Waterworld
Mi era sempre sembrato più un fumettone che un film vero e proprio, questo "Waterworld" con Kevin Costner: e gli avevo dato un'occhiata distratta. Ma poi, l'anno scorso, è arrivata l'inondazione di New Orleans. Che cosa c'entra, si dirà: era un uragano, e poi c'è stata una grave incuria nella manutenzione delle dighe (per dirottare i fondi sulla guerra in Iraq, si è detto: chissà se è vero, certo dà da pensare). Però già da diversi anni capita di imbattersi in ardite ricostruzioni di quello che potrebbe capitare con l'effetto serra, e sono ricostruzioni impressionanti. Tutte le città sul livello del mare sono a rischio, si dice in quelle inchieste: se ne fanno i nomi (una lista molto facile da scrivere, e molto impressionante: Londra, Venezia, New York, Napoli...) e uno di questi esempi impressionanti era proprio New Orleans. Abbinate alle immagini dello tsunami in Thailandia e Indonesia, che avevano aperto il 2005, è diventato difficile dimenticarsene.
E' così che ho riscoperto questo filmetto di per sé innocuo, in una ennesima replica televisiva; e questa volta mi ha colpito più di quanto non avesse fatto in passato, e sono rimasto a vedermelo fino alla fine. Il mondo è sommerso dalle acque, completamente; si favoleggia di un residuo di terre asciutte, ma i superstiti (che vivono su navi gigantesche, vecchie petroliere e portaerei) quasi non ci credono più, e il buon vecchio Kevin Costner, mezzo uomo e mezzo pesce per via di mutazioni genetiche, li guiderà verso la salvezza, non senza prima aver sconfitto i pirati.
Ah già, i pirati: nelle storie di mare dei pirati non si riesce proprio a fare a meno; e sono pirati che fanno un po' sorridere, come incarnazione del male non sono gran cosa, questi contro cui combatte Kevin Costner. Forse non avevano abbastanza immaginazione, mi viene da dire, questi signori di Waterworld; o forse non guardavano mai il telegiornale, dove di cattivi inquietanti, con i loro degni seguaci, ne vediamo fin troppi.